Faceva bene troppe cose oggi è un mito per pochi
Si racconta che a Londra, nel 1897, alla vigilia del debutto inglese di Ferruccio Busoni, un critico, intervistandolo, gli chiedesse quale fosse la sua professione. -Io sono un musicista, come certo saprà, ribattè Busoni. -Oh sì, naturalmente; ma, voglio dire, quale strumento suona in particolare?””. – In particolare? Nessuno. L’aneddoto è significativo, e illumina a sufficienza un lato caratteristico della personalità di Busoni, l’amore per il paradosso dissacrante e per l’autoironia, forse una conseguenza del suo sangue toscano. Ma. dice anche la fatica di dover giustificare ogni volta, senza neppure la certezza di essere compreso, la propria identità di musicista, apparentemente dispersa in attività tanto diverse da apparire inconciliabili: quella del pianista, virtuoso straordinario e interprete sconcertante, del revisore e del trascrittore geniale, del didatta tanto anticonformista quanto radicato nella tradizione, del pensatore e dello scrittore d’estetica, del teorico, del compositore, infine, e del creatore versatilissimo.
Non per nulla George Bernard Shaw, uno che se ne intendeva, scrisse una volta a Busoni questo consiglio: – Ma come compositore lei dovrebbe prendersi uno pseudonimo. In generale non si ammette che una persona sia capace di far bene più di una cosa; e quando l’ho sentita suonare, mi sono detto: è impossibile che possa scrivere musica. Non c’è abbastanza posto in una singola vita per eccellere in più di una attività -.
Se Busoni non dubitò mai della convergenza e della sostanziale unitarietà dei suoi diversi interessi — facce complementari di un prisma, il suo esser musicista — la storia sembra avergli dato torto proprio in questa aspirazione alla totalità, a una immagine di sè completa e compiuta, che fu lo scopo e forse la tragica tagliola della sua vita. A sessant’anni esatti dalla morte, Busoni rimane tutt’al più, per qualcuno, per pochi, un mito, ossia qualcosa che non s’invera e non incide direttamente sulla realtà. Assente dal repertorio stabile teatrale, sinfonico e da camera, campi nei quali egli ha pur lasciato testimonianze copiose e non insignificanti, Busoni, quando vi riappare saltuariamente, accende fiammate intense, che non durano però a lungo. Strano destino per chi, come lui, aveva fatto della stabilità e della continuità il principio di fede essenziale.
Destino, certo, anche tragico, o forse comico, come quello di tanti suoi personaggi indefinibili, nella Sposa sorteggiata, in Arlecchino e Turandot, o perfino nel testamento definitivo — emblematicamente incompiuto — del Doktor Faust. Destino segnato, fin dal principio, da dicotomie e contraddizioni: l’essere, pur non volendo apparire, uomo e artista di frontiera, italiano di nascita e tedesco di adozione; esecutore e creatore; cultore appassionato della tradizione e tenace assertore del nuovo; capofila delle giovani generazioni e nemico giurato delle avanguardie. Se le dicotomie affondano le radici nel profondo dell’anima di Busoni — costituzionalmente una Grenznatur sospesa fra due poli opposti – e ne costituiscono per così dire la premessa, le contraddizioni del suo pensiero e della sua opera sono la conseguenza dell’impatto con la storia, con l’agire concreto e attivo, e provocano sensibili contraccolpi anche all’interno della sua personalità.
Il periplo dell’esistenza di Busoni ne dà chiara dimostrazione. Per esempio Busoni si proclamava cittadino del mondo e cosmopolita; come musicista, continuatore di una tradizione universale e unitaria, indirizzata verso il nuovo e l’incognito. Urgeva in lui una vocazione europea partecipata e vissuta nello sforzo di riunire esperienze diverse — quella stessa diversità e molteplicità in cui si incarnava il suo modo di vivere la musica — sotto un denonimatore comune. Che questa metà fosse utopica e inattuale —. cioè inattuabile — nella disgregazione politica e linguistica cui si avviava l’Europa, Busoni parve comprenderlo soltanto con lo scoppio della grande guerra.
Allora, pur non venendo mai meno la fiducia, il dissidio si radicalizzò e portò alla luce una vera, intima crisi di identità, che generò il dubbio, o quanto meno fece vedere sotto una luce nuova i problemi di sempre. Basta osservare i lavori su Bach e Mozart — i numi tutelari della vita di Busoni, accanto al compagno di strada Liszt — prodotti dopo quella svolta, a rendersene conto; per non dire le opere originali, venate di amarezza e nostalgia dolcissime.
Sarebbe tuttavia sbagliato considerare Busoni, o almeno il Busoni degli ultimi anni, quello certo più alto — alla stregua di un artista della crisi; o viceversa insistere troppo sul fatto che molte delle profezie o anticipazioni del suo pensiero (la teoria sui terzi e sesti di tono, le 113 nuove scale, la futuristica generazione elettroacustica dei suoni, e così via) non trovassero realizzazione concreta nelle sue opere. Busoni considerava la propria opera come l’anello di una catena infinita, sospeso tra passato e futuro: ciò che egli non avrebbe compiuto, altri, in tempi più maturi, avrebbe realizzato, con ponderata gradualità, mirando alla permanenza e alla concretezza dei nuovi impulsi. Giacchè è la perfezione del classico» ciò a cui l’artista e la storia tendono. Tutto il resto, anche l’angoscia, è, al limite, un fatto privato.
Nell’Abbozzo di una nuova estetica della musica, il fondamentale saggio teorico di Busoni, c’è un punto critico, una frase quasi mormorata sottovoce e che si spegne nei puntini di sospensione: «Vedo anche come comincia la decadenza, i puri concerti si confondono e l’Ordine è sconsacrato E il destino degli uomini futuri, aggiungerà Busoni poco dopo: «e noi — oggi — stiamo a loro come la fanciullezza alla vecchiaia». Forse questo futuro per Busoni non è ancora giunto. Non crediamo che nella storia della musica, o altrove, esistano condizioni di perenne .fanciullezza. Ma per Busoni vittima suo malgrado di tempi inattuali, saremmo disposti a fare un’eccezione, allorchè scoccherà l’ora dei sopravvissuti.
da “La Gazzetta di Parma”