La Lindenoper, dopo la trasformazione in teatro di regime, ritrova la propria tradizione
Daniel Barenboim ha diretto con efficacia e convinzione la complessa opera del compositore italiano
Berlino – Ora che l’iscrizione originale voluta da Federico II re di Prussia a consacrazione del teatro fatto costruire nel 1742 per celebrare i «Sacri giochi di Talia e Melpomene» è tornata a far bella mostra di sé sul frontone, un altro filo della storia tedesca si è riannodato: in uno dei luoghi piú belli e ricchi di memorie, la Lindenoper, o Oper unter den Linden, dal nome del viale in cui sorge nel cuore di Berlino, ex Berlino Est. Fu a causa di quella venerabile epigrafe, concellata dopo la «ricostruzione» e sostituita con quella, piú democratica, di «Deutsche Staatsoper», che Erich Kleiber lasciò il suo incarico agli inizi degli anni Cinquanta, con un gesto di coraggio e di dignità: «La cancellazione improvvisa, in sole due ore, dell’iscrizione Fridericus Rex Apollini et Musis dalla facciata della Lindenoper è uno scempio perpetrato ai danni di un monumento della grande storia tedesca. Non permetterò a chiunque abbia dato questo ordine vergognoso di influire sui principi e sulle direttive della mia attività artistica, che finora si è svolta in modo assolutamente libero».
Si riscriverà, si riscriverà un giorno questa storia. E a mente fredda crescerà la pena nel constatare quanti scempi siano stati perpetrati in questi ultimi cinquanta anni dentro e attorno al regale tempio dedicato ad Apollo e alle Muse: quello in cui proprio Kleiber aveva diretto la prima assoluta del Wozzeck. Nelle celebrazioni di questi giorni per i 250 anni, il termine «Deutsche Staatsoper Berlin» ambisce a significati nuovi, per quanto ancora ambigui; anche se si è fatto di tutto per riparare almeno ai guasti piú evidenti con un restauro che ha restituito l’edificio di Knobersdorff al suo antico splendore.
Se la ricostruzione del dramma per musica Cleopatra e Cesare di Carl Heinrich Graun, con cui il teatro fu inaugurato due secoli e mezzo fa, aveva un sapore tutt’al piú documentario, la scelta del Parsifal a capo della stagione poneva l’accento su una riconsacrazione della casa da parte dei nuovi responsabili, dopo la tabula rasa. E per quanto se ne possa discutere la grandezza specifica, a cominciare da quella del nuovo direttore musicale, Daniel Barenboim, si intuiva che qui ora si è ritornati a respirare un po’ d’aria nuova. Lo dimostrava, come seconda nuova produzione della stagione, la presenza di un’opera di Ferruccio Busoni praticamente sconosciuta e strettamente legata alla storia berlinese: Die Brautwahl (La sposa sorteggiata). Esordio teatrale abbastanza tardivo (nel 1912, a 46 anni) di un musicista che fu in primo luogo uno dei massimi virtuosi di pianoforte della sua epoca ma che coltivò per tutta la vita, di cui appunto Berlino fu il centro, ambizioni tutt’altro che velleitarie di compositore, e di operista in special modo.
Ispirata da un racconto di E.T.A. Hoffmann, La sposa sorteggiata è opera certo disuguale ma di grande interesse. Prima di abbandonare criticamente convenzioni vere o presunte, come farà in seguito, Busoni tenta in questa commedia musicale una sintesi dei diversi generi d’opera, approdando a una visione personale degli elementi stessi che la compongono. Per esempio l’intreccio amoroso consueto si defila sullo sfondo lasciando emergere personaggi e situazioni di un ambiente nel quale la quasi calligrafica ricostruzione di luoghi della Berlino del 1820 si trasfigura in riflessione sull’arte come magia, mezzo di illusione che trasforma la realtà. La tematica della missione superiore dell’artista, incondizionata e incondizionabile, diviene cosí metafora di un ideale estetico che alla realtà sostituisce la fantasia e il sogno, all’azione drammatica l’evocazione lirica: con una capacità di caratterizzare affidata non solo al canto – ironica anatomia delle idiosincrasie dell’autore, duetto d’amore in testa – ma soprattutto all’orchestra: un’orchestra trattata con una cultura strumentale e una originalità di trovate eccezionali.
Assumendosi l’incarico di dirigere personalmente la rara partitura, il Generalmusik-direktor Daniel Barenboim ha dato prova di credere nei suoi valori, e li ha resi con efficacia convincente. Molto impegnandosi a far suonare in modo degno la gloriosa Staatskapelle che fu di Furtwaengler e Kleiber, Walter, Klemperer e Karajan – per ricordare solo i grandissimi fra tanti grandi – e a guidare una compagnia di canto non di primissimo ordine ma con alcune personalità di giovani interessanti. Perfino nella regia di Nicolas Brieger si potevano notare sintomi confortanti di un’inversione di rotta rispetto alle plumbee e ottuse attualizzazioni imperversanti nell’ex teatro di regime della Ddr: pulizia, gusto, sensibilità, perfino rispetto del testo e credibilità. Non era il massimo ma ci si poteva accontentare, e questa volta non solo delle buone intenzioni.
“La sposa sorteggiata” di Busoni alla Lindenoper di Berlino, repliche il 26 e 28 dicembre
da “”Il Giornale””