Alla corte di Don Carlo, eroe della storia

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Aspettando la prima – Domani alla Scala si apre la nuova stagione

Riccardo Muti e Luciano Pavarotti sotto i riflettori nell’allestimento di un’opera che Verdi scrisse ispirandosi a Schiller e con la quale tentò la sua prova più ambiziosa e difficile

Don Carlo segna l’estremo ritorno di Verdi al dramma a sfondo storico, nel quale i personaggi non sono solo eroi tormentati di un melodramma in via di trasformazione ma anche figure calate in una situazione ambientale chiusa. In nessun’altra opera di Verdi la cornice storica è cosa determinante, nell’epoca, nei luoghi e nei fatti dell’azione. La grandezza regale dei personaggi principali, ossia Filippo II, Don Carlo ed Elisabetta di Valois, è già insita nella scelta del soggetto e si estende di riflesso anche agli altri tre, il marchese di Posa, la principessa d’Eboli e il Grande Inquisitore, poco meno che protagonisti in una storia di potere e di sopraffazione; amplificandosi nelle scene corali, mai come prima direttamente e talvolta audacemente inserite negli snodi del dramma: soprattutto nella versione ridotta da cinque a quattro atti. Se l’intreccio di sfondo storico e di conflitti di natura privata, individuale, era il primo requisito del grand-opéra – in un momento peraltro di crisi interna al genere in quanto tale: Meyerbeer stesso, con l’Africana, stava battendo altre strade -, decisiva fu la mediazione del dramma di Schiller, che Verdi aveva già rifiutato per il suo ritorno all’Opéra di Parigi, risolvendosi in favore dei Vespri siciliani. L’accettò invece molti anni piú tardi: intuendo le possibilità di uno sviluppo che proprio le diverse condizioni del teatro rendevano attuabili. Ed esse andavano nel senso di una maggiore coesione dell’azione, di una minore incidenza del decoro spettacolare in favore di una piú intima connessione degli elementi

costitutivi dell’opera con la verità e la profondità dei caratteri colti nell’intimo degli animi.

Da questo punto di vista, e anche da quello piú strettamente stilistico, Don Carlo non sarebbe pensabile senza il rifacimento del Macbeth che lo precede di due anni; mentre in controluce si proietta l’ombra incombente di quel progetto di un King Lear che ossessionò Verdi nella sua maturità, e che lascia tracce ora nella raffigurazione potente del rovello di Filippo II e nelle solitudini incomunicabili degli altri. Da Schiller derivano invece, e sia pure nella scala ridotta di un libretto inevitabilmente piú povero, il fuoco delle passioni soffocate dalla ragion di Stato, la terribile violenza dei sentimenti e delle scelte immodificabili, piú sinistramente drammatiche che non puramente tragiche. Non c’è mezza misura in questi trapassi, leggerezza mai: una tinta scura, opprimente e fosca anche nei momenti di apertura al canto come manifestazione illusoria di speranza, grava sulla partitura da cima a fondo. E ciò si evidenzia nella versione in quattro atti piú ancora che in quella originaria: questa ingentilita non poco dalla grazia della lingua francese e stemperata dalle convenzioni di raccordi in fondo inessenziali (peraltro distribuiti con chiara funzionalità di effetti: basti pensare all’antefatto della foresta di Fontainebleau e al balletto del terzo atto).

Sospeso per il momento Shakespeare, Schiller, dunque. Ossia un grande della letteratura tedesca. Può darsi che Verdi, col brusco orgoglio che gli era proprio, intendesse anche sotto sotto dimostrare che l’opera moderna, anzi il dramma musicale (termine che ricorre esplicitamente nelle sue lettere a proposito del Don Carlo), non dovesse essere per forza mito, neppure in prospettiva europea. Pur ammirandolo, non capiva le intenzioni di Wagner. E non c’entravano qui le tradizioni nazionali. Per Verdi l’opera non poteva consegnarsi totalmente all’assoluto, ma richiedeva tempi, luoghi e spazi determinati: grandi contrasti tra impulsi passionali e doveri pubblici esattamente individuati nel groviglio del dramma. Inventare il vero equivaleva a cercare le tensioni nelle situazioni della realtà, sia pur trasfigurandone i sentimenti. E quanto piú precisata fosse la cornice storica e approfondita la psicologia dei personaggi in rapporto alla vicenda, tanto piú efficace e commovente poteva essere la finzione teatrale. Con Don Carlo, proprio per la statura dei personaggi e la imponenza della situazione storica in cui si attua il dramma, Verdi tentò la sua prova piú ambiziosa e difficile.

Ne fu senza dubbio consapevole. In gran parte, per quanto glielo consentissero le prime circostanze, travasò esperienze musicali per lui stesso nuove in un piano drammaturgico scentrato, dilatato a dismisura. Piú che affidare a forme chiuse i momenti topici dell’azione costrui l’opera su contrapposizioni bloccate, reiterate, elevando il duetto, il pezzo d’insieme, il concertato a mezzi d’espressione di conflitti insolubili; dove non conta piú chi abbia torto o ragione, o per quale ideale si combatta: l’importante, ciò che è mirabilmente realizzato dalla musica, è che in quel momento ognuno senta realisticamente, fino in fondo, l’ineluttabilità del destino che gli è affidato. Certo, non mancano anche le arie, i grandi squarci solistici; ma essi accrescono un senso di precarietà, di ambiguità e di dubbio, che si proietta vertiginosamente, senza attese, su eventi che vanificano perfino la tenerezza del monologo interiore, i valori dell’amore e dell’amicizia, della libertà e della giustizia: lasciandone solo il dolore dell’illusione. Queste spaccature verticali si ricompongono nel Don Carlo in quattro atti concentrando l’esteso racconto in dramma senza redenzione, bruciando contemporaneamente il terreno del mito e della storia. L’opera si conclude là dove era cominciata: l’immagine che resta è quella di un punto luminoso nell’infinito, oltre il buio, ogni passione spenta.

da “”Il Giornale””

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