Gli «Ultimi quattro lieder» a Monaco secondo la Norman e Celibidache
Commovente interpretazione accompagnata dal gesto solenne del direttore
Monaco – In questi tempi un po’ duri e un po’ difficili per la musica, mentre da noi lo sciopero torna a essere la partitura d’attualità e della disperazione, a Monaco s’inventano concerti speciali se non unici, cosí all’ultimo momento, come era già accaduto con Benedetti Michelangeli. Naturalmente la preparazione deve essere stata lunga e paziente, giacché si trattava di convincere Jessye Norman a cantare con Sergiu Celibidache e i Filarmonici di Monaco gli Ultimi quattro Lieder di Richard Strauss, in una stagione programmata con largo anticipo. Ma Celibidache c’è riuscito in silenzio, togliendosi una soddisfazione che, pare, accarezzasse da tempo per celebrare i suoi ottant’anni. E l’evento, oltre a richiamare frotte di appassionati, non ha deluso le attese: un innesto superbo in un luogo appartato capace ancora non solo di dare un senso alla musica come bene della civiltà e della cultura ma anche subordinare alle ragioni della verità interpretativa piú profonda gli incontri eccezionali, senza accompagnarli con clamori e schiamazzi pubblicitari.
Mai contrasto con i fatti di casa nostra è apparso piú stridente. E raramente l’estrema partitura di Strauss, con i suoi significati tutt’altro che reconditi nella fase di depressione che stiamo vivendo, è sembrata altrettanto commovente e definitiva: di un modo non solo di intendere la musica ma anche di testimoniare attraverso di essa valori estinti, inondati di eternità. E tutto questo veniva reso dalla Norman, in uno stato di grazia che la rarità delle sue apparizioni ci aveva quasi fatto dimenticare, e da Celibidache, l’unico oggi a cui competa di diritto il messaggio che vi è contenuto, in modo cosí vertiginosamente puro da farci sentire con sgomento che solo a queste condizioni l’esperienza musicale può avere il senso dell’assoluto, e comunicarcelo per intero. Che cosa restava, dopo quell’approdo irreale, di veramente desiderabile?
Restava forse la tensione spasmodica, protratta fino al limite del sostenibile, del gesto solenne e rituale con cui Celibidache ha poi diretto la Patetica di Ciaikovskij, un’altra di quelle partiture abissali che perfino lui destina solo ai momenti speciali. Viaggio al termine della musica, da cui tutto, in un colpo d’occhio abbagliante, era travolto dal peso delle memorie e delle solitudini, avare di speranze ma non di fede. Perché solo chi possegga ancora una fede, come Celibidache, e non abbia bisogno di atti dimostrativi per rivelarla, può dilatare per un’ora — tanto durò la sua esecuzione — il lugubre addio di Ciaikovskij, e nobilitarlo per se stesso e per noi, in un compianto universale che sembrava voler dire: tutto è perduto perché siete voi a non saper piú dire: cosí deve essere.
Fu il gelo quando il vecchio maestro abbassò la bacchetta. E non si sapeva se piangere sul nostro destino o accogliere quell’invito di una grande volontà, nel piccolo mondo delle nostre inadeguatezze.
da “”Il Giornale””