Intervista. col maestro in vacanza a Grassau, che dal ’93 guiderà l’Orchestra di Philadelphia
“L’opera non gratifica ma terrò fede agli impegni con la Scala”
Grassau – A Grassau, sulle montagne prospicienti il Chiemsee, a metà strada fra Monaco e Salisburgo, Wolfgang Sawallisch trascorre da anni le sue vacanze. Non considera questa la sua residenza estiva, e neppure il suo rifugio, bensì la sua vera casa. «Qui seggo e posseggo», dice allegramente parafrasando con Wagner il gigante Fafner, non senza ironia. La villa tra i boschi in cima alla collina, isolata in un paesaggio di sogno, è il suo regno. Il piano terreno è interamente occupato dalla sala della musica, dove troneggia un magnifico Bösendorfer gran coda e sono disposti in bell’ordine i pezzi piú pregiati di una collezione d’arte che idealmente accosta antichità classiche e preziosità orientali, in mezzo a una biblioteca fornitissima di partiture e di libri rari, splendidamente rilegati. L’arredamento della villa mostra segni tangibili della passione di Sawallisch per ciò che i tedeschi chiamano «basteln», il lavoro fatto a mano, ben piú del semplice «bricolage». Ed è quasi con orgoglio che egli apre la sua stanza da lavoro, piena di arnesi e di materiali da costruzione, nella quale trascorre, solo e felice, la maggior parte del tempo libero.
Questa è un’estate un po’ speciale per Sawallisch. Dopo 21 anni di direzione artistica e di soprintendenza lascia l’Opera di Stato di Monaco. Per la prima volta da quando ha iniziato la sua carriera, ad Augusta subito dopo la guerra, non sarà piú a capo di un teatro. Nel 1993 assumerà la direzione musicale dell’Orchestra di Philadelphia, e quello diventerà il centro della sua attività. Una svolta quasi inimmaginabile per colui che resta, alla soglia dei settant’anni, uno degli ultimi eredi della grande arte, interpretativa tedesca. Com’è maturata questa decisione?
«Da quando ho debuttato all’Opera di Monaco, il 12 luglio 1969, le mie presenze sul podio sono state in tutto 1.165. A quanto pare, è un record. Ora credo sia giunto il momento di lasciare ad altri spazio e iniziativa. Anche perché fatico sempre piú a riconoscermi negli sviluppi che il teatro d’opera ha avuto in questi ultimi anni. E ciò vale non solo per Monaco. Credo che in futuro la mia attività come direttore d’opera sarà molto ridotta: forse quasi del tutto.
Rispetterò gli impegni già assunti, che poi si esauriscono nella tournée dell’Opera di Monaco in Giappone nel prossimo novembre, l’ultima della mia gestione, per la quale ho scelto di congedarmi con La donna senz’ombra di Strauss, e nel Ratto dal serraglio alla Scala nel ’94, l’unica opera importante di Mozart che non faccio da trent’anni. Altro non c’è. Mi preme molto di piú tornare con regolarità e concentrazione al repertorio sinfonico, a Haydn, a Mozart, a Beethoven, a Bruckner, a Strauss, alla musica pura e senza interferenze».
Ma che cosa è successo di tanto grave per far abbandonare il campo anche a lei, kapellmeister della più nobile estrazione?
«Il mondo dell’opera vive oggi una situazione di estremo disagio. Non voglio dire di chi sia la colpa, ma tutto è diventato tremendamente difficile e per assurdo davvero poco gratificante. Sono cambiati l’atmosfera, il clima, i valori, il senso stesso
del nostro lavoro, in rapporto sia a noi stessi sia al pubblico. Mancano i punti di riferimento, tutto si consuma in modo così rapido da rasentare l’effimero. Non credo basti la volontà di un singolo per raddrizzare questa situazione, che sento in stridente contrasto con ciò che per me rappresenta l’opera, il teatro musicale nella sua essenza».
Intende riferirsi all’invadenza dei registi? Lei fu il primo, già molti anni fa, a mettere per così dire il dito nella piaga, abbandonando la Tetralogia con Ronconi alla Scala. Ciò nonostante poi ha avallato a Monaco allestimenti di cui non poteva certo condividere l’impostazione.
«Mi creda, non avevo alternative. Il punto centrale è proprio questo: a poco a poco sono venute a mancare quelle personalità di registi, l’ultima delle quali è stato Rennert, che con l’opera avevano una naturale, intima confidenza. C’è stato un salto generazionale netto e improvviso, senza mediazioni: di gusto, di cultura, di intenzioni. Ciò rispecchia la profonda trasformazione della nostra società, in tutti i sensi. Non nego di aver creduto alla possibilità di una conciliazione, anche a costo di cedere su alcune mie convinzioni: oggi posso dire di essermi trovato di fronte non a vicoli, ma a interi viali senza uscita. Non sono per principio contro la regia moderna; ma la moda di voler attualizzare tutto esteriormente porta a risultati banali, ripetitivi, noiosi. Il disagio di cui parlavo non riguarda però solo la collaborazione coi registi. Pensi ai cantanti. Sono diventati schegge impazzite di un mondo in subbuglio: capricciosi, testardi, inaffidabili. Non tutti, è chiaro. Ma ormai sono loro a dettar legge, fanno e disfano i contratti a loro piacimento, non rispettano le regole di un’etica professionale sempre piú aleatoria. E trovano comunque una giustificazione.
Che cosa si aspetta dall’avventura americana, a Philadelphia?
«Avrò la possibilità di lavorare a fondo con una grande orchestra direttamente. Voglio riprendere da capo il maggior repertorio classico e romantico, riconsiderare certi autori del nostro secolo, confrontando la mia esperienza con un’altra tradizione. Nel segno della continuità, della stabilità. Ma lo sa che a Philadelphia non sono mai state eseguite Le stagioni di Haydn? Pensi, ne darò io la prima assoluta».
E quando la rivedremo in Italia?
«Conto di tornare a Santa Cecilia tutti gli anni. E mi piacerebbe dare una mano alla crescita della Filarmonica della Scala».
Ma davvero pensa di rinunciare al teatro?
«Sono stufo del teatro, che pure è stata la mia vita. Stufo di dover affrontare mattina e sera compromessi e arrabbiature, di sorprendermi a rimpiangere il passato. Voglio guardare avanti. Oggi mi sento finalmente libero, come se per me cominciasse una vita nuova. Ed è una sensazione meravigliosa, a cui
non intendo piú rinunciare».
da “”Il Giornale””