Spoleto si è aperto con la riedizione della poco nota opera donizettiana che già nel ’59 inaugurò il festival
Incantano scene e costumi di Sanjust, le magie di Visconti non sopravvivono
Ne nacque uno spettacolo che fu ammirato piú per la bellezza della realizzazione che per il valore in sé della partitura, che costituiva comunque una novità.
Ed è con l’intento di celebrare una pagina della sua storia che il festival ha scelto per l’inaugurazione di quest’anno proprio quell’edizione del Duca d’Alba, affidandone la ripresa a Sanjust, unico superstite della triade perfetta dei suoi artefici.
L’impressione che se ne è avuta è di autentica meraviglia per le scene dipinte e i costumi, che con il loro immaginario realismo mantengono ancora intatti la forza d’evocazione e il carattere di una ambientazione teatrale sontuosa, e di inevitabile delusione per ciò che figurava come mano di Visconti.
Il quale, se come regista lirico non si azzardò mai a varcare i limiti d’un impianto tradizionale, rispettoso com’era delle convenzioni melodrammatiche, sapeva però ricreare sulla scena con il suo inconfondibile tratto un incanto poetico e una recitazione intensa; come ben ricorda chi vide, proprio a Spoleto, l’ultima, indimenticabile Manon. Ed è proprio lo specifico di questo lavoro che evidentemente non poteva essere ricostruito neppure da un artista della finezza e dell’eleganza di Sanjust.
Movimenti impacciati, luci poco differenziate, ripetute cadute di tensione davano a questa candida regia un pallore innaturale: mancando soprattutto di aura. Termine forse passato di moda ma strettamente connesso con la visione del melodramma romantico, decadente e preziosa, che era propria di Visconti, e ragion d’essere del genere stesso, poi spesso brutalizzato da invadenze registiche d’altro segno. Mentre qui, seppur solo intuibili, discrezione e misura erano valori dominanti, da apprezzare in blocco.
Ma era soprattutto sul piano della realizzazione musicale che il paragone appariva improponibile. Lo scatto, la vitalità e l’incandescenza di Schippers, reperibile perfino in una testimonianza discografica tecnicamente pessima, si diluivano in una generica animazione senza nerbo né stile nel gesto enfatico di Alberto Maria Giuri, incapace spesso di coordinare orchestra e palcoscenico e di ottenere una reale coesione dalla Spoleto Festival Orchestra e dal Westminster e poi Choir, molto al di sotto delle loro possibilità. Mentre la compagnia di canto era afflitta da numerosi, differenti problemi: di sicurezza e di stile, anzitutto, nel protagonista Alan Titus, di agilità belcantistica nella figura soave e insieme energica di Amelia di Egmont (una tuttavia promettente Michela Sburlati), di stabilità puramente vocale nei due bassi acerbi, Marco Pauluzzo e Robert Milne. Piú attendibili i tenori Dennis Peterson e Cesar Hernandez: soprattutto quest’ultimo, nel ruolo impervio, già preverdiano, dell’eroico e introverso Marcello di Bruges.
Può darsi che su quest’impressione di cosa un po’ slegata abbia pesato la preparazione ancora incerta, evidente all’anteprima per la stampa: molti aggiustamenti e miglioramenti, c’è da crederlo, interverranno nelle repliche, dopo la prima festosa di ieri sera.
Repliche i127 giugno, 1, 4, 9 e 12 luglio
da “”Il Giornale””