Una mostra a Vienna a 50 anni dalla morte del compositore e direttore
Molti anche da noi si sono occupati in questi primi mesi dell’anno di due cinquantenari, quelli della morte di Robert Musil e Stefan Zweig. Nessuno o quasi si è però ricordato di un altro rappresentante della cultura austriaca della prima metà del secolo, un musicista ebreo, anche lui viennese, scomparso proprio cinquant’anni fa: Alexander Zemlinsky (1871-1942). Per la verità un incisivo profilo ne dette Piero Buscaroli recensendo la rappresentazione della sua opera Il nano a Trieste il marzo scorso. Ora l’occasione di una riflessione biografica sulla figura di Zemlinsky è offerta da una piccola, ma utile mostra di documenti e fotografie allestita per la ricorrenza nella sala delle esposizioni del «Musikverein» di Vienna, dove rimarrà aperta fino al 21 giugno.
«Sprizza talento da ogni poro», aveva detto di lui Johannes Brahms quando lo aveva conosciuto giovanissimo, ancor prima di accoglierlo nel 1893 nell’Associazione dei compositori viennesi, di cui era presidente onorario. E sul talento, usando quasi le stesse parole, aveva insistito anche il suo maestro di composizione Johann Nepomuk Fuchs, eminente depositario della tradizione classica. Talento e civiltà viennese sembravano i tratti destinati a fare di Zemlinsky un protagonista nel segno della continuità, un anello di congiunzione in un’epoca che non recava ancora i segni imminenti dell’apocalisse. E in un certo senso egli lo fu, almeno all’inizio. Nel 1895 Zemlinsky conobbe Arnold Schönberg: il quale divenne suo allievo e poi ne sposò la sorella, Mathilde. Con lui partecipò attivamente, prima come pianista poi come direttore d’orchestra, alla diffusione delle musiche dei compositori che con etichetta ormai sbiadita vennero poi definiti della seconda scuola di Vienna. Non ve n’era stata una prima, non ve ne fu una seconda: di cui semmai il fulcro, finché vi rimase, fu Gustav Mahler, anch’egli ammiratore e collaboratore di Zemlinsky, nonostante la penosa storia dei loro contrasti a causa di Alma Schindler, di cui Zemlinsky si era pazzamente innamorato. Non riusci a legarla a sé, e si limitò a farle da maestro in molti campi, instillandole subdolamente la convinzione di valere come compositrice anche piú del futuro consorte. Il musicologo Egon Wellesz lo ricorda come un uomo di repellente bruttezza ma incredibilmente affascinante, estroso, intrigante e cinico. A qualcuno sembrava che il carattere viennese tendesse a prendere pericolosamente il sopravvento sul talento piú genuino, da cui ben presto fermentarono frutti copiosi, agrodolci.
Il resto della carriera di Zemlinsky si svolse lontano dalla capitale, prima a Praga, meta storica dei fuggiaschi da Vienna, come Kapellmeister del Deutsches Landestheater, poi a Berlino, dove Otto Klemperer lo invitò nel 1927 come collega alla Krolloper e dove rivaleggiò con il coetaneo Leo Blech e con i piú giovani George Szell ed Erich Kleiber. Una testimonianza di Stravinski lo celebra come il piú bravo di tutti, ma forse perché era il piú solerte a eseguire i suoi pezzi. Non è comunque il solo a confermare le spiccate qualità di Zemlinsky nella direzione d’orchestra; come nell’insegnamento, che fu per tutta la sua vita non un ripiego ma una dimostrazione di forza: un grande interprete anche secondo Strauss e un didatta brillante, influenzato da queste doti anche nella vena eclettica delle sue composizioni.
A Vienna ritornò nel 1933, e probabilmente dovette scoprire che del suo mondo di un tempo erano rimaste soltanto le apparenze. Alban Berg non lo trovò cambiato, per lui rimaneva «un colossale mascalzone»: ciò non gli impedì di dedicargli la Suite lirica. Il rientro come direttore a capo di una nuova orchestra sinfonica fondata da Hermann Scherchen avvenne con un programma che comprendeva il Quarto concerto Brandenburghese di Bach, la Musica da concerto per pianoforte, due arpe e ottoni di Hindemith e la Quarta Sinfonia di Brahms: un viaggio alla ricerca di proprie, perdute radici. Seguirono varie peregrinazioni in Europa, dove il suo stile di compositore pareva un compendio di idiomi internazionali già postumi, e la triste fine a New York, lontanissimo ormai perfino dalle memorie delle radici recise. La conclusione di una lettera, che il curatore Otto Biba ha assunto a titolo della mostra, parla di grandezze ideali, di meriti misconosciuti: «Bin ich kein Wiener?», non sono io un viennese, si domanda da ultimo Zemlinsky. Richiamo, forse, a un luogo dell’illusione già da tempo immemorabile non piú felice ma puramente nostalgico e visionario.
L’impressione che si genera all’ascolto delle musiche di Zemlinsky non è soltanto quella di un talento distratto per troppo ammasso di mestiere, riferimenti, ambizioni, esperienze, ma soprattutto condizionato dalla mancanza, di cui scriveva Buscaroli, del «piano e calmo respiro del creatore originale». Zemlinsky promette sempre molto, ma piú di quanto non mantenga all’atto pratico: si ha quasi la sensazione che pur partendo da obbiettivi precisi finisse poi per vivere di riflessi imprevedibilmente cangianti, senza la capacità di trovare valori, neppure sul terreno della modernità, nell’equilibrio della creazione artistica, in bilico tra lo stravolgimento onirico della realtà e il disperato tentativo di una palpitante espressione. La magnifica epigrafe di sé da lui stesso dettata ne è uno specchio fedele, tragico come il tempo che visse: «Ma invecchiando, perciò con giudizio piú pacato, mi sono convinto di una cosa: in ultima analisi ognuno è colpevole del proprio destino, o quanto meno ne è colpevole senza colpa. A me manca sicuramente quel certo che necessario – oggi piú che mai – per farsi strada e arrivare in prima fila. In una tale ressa non basta avere i gomiti, bisogna anche saperli usare. Ma tutte queste sono cose arcinote. Perciò mi rallegro quando mi riesce di lavorare per me stesso, né piú né meno di quelli che lavorano per il successo immediato».
da “”Il Giornale””