Nel manicomio di Glass non c’è traccia di Poe

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«The fall of the house of Usher» al Maggio fiorentino

Non colpisce né emoziona la nuova opera del compositore americano

Firenze – Il concerto rossiniano di Myung-Whun Chung, che ha inaugurato la 55a edizione del Maggio Musicale Fiorentino, è stato un buon concerto di normale amministrazione. Ammesso e non concesso che si dovesse aprire il festival con la versione per orchestra di una Sonata a quattro scritta da Rossini a dodici anni, con l’ouverture del Guglielmo Tell e con lo Stabat Mater, accostamenti in sé abbastanza discutibili, al recensore non resta che ratificare l’impegno con cui i solisti (Daniela Dessy, Olga Borodina, Pietro Ballo, Ruggero Raimondi), il coro e l’orchestra le hanno preparate e condotte a termine, senza emozioni speciali.Chung si è confermato un direttore di rango (salvo macchiarsi della grave colpa di far eseguire nello Stabat il Quartetto senza accompagnamento «Quando corpus morietur» al coro), ma ormai anche psicologicamente lontano dal teatro che l’aveva scoperto e lanciato.

Il recensore vorrebbe invece rinunciare al ruolo di critico per la prima opera in cartellone alla Pergola, ossia la prima italiana (direttore Marcello Panni) di The Fall of the House of Usher di Philipp Glass, dall’omonimo racconto di Poe; e non per cattiva volontà. Il fatto è che lo stile di questo compositore americano e la tendenza di cui è rappresentante non riescono ad appassionarlo, neppure come testimone della musica del nostro tempo. Forse sarebbe esagerato affermare che ciò che si è ascoltato e visto in questo spettacolo non appartiene né alla storia della musica né al nostro tempo: esistono, dunque sono. Ma le regole su cui si basa la musica cosiddetta minimalista., ossia la ripetizione all’infinito di poche cellule melodiche e ritmiche, non sono una novità ( e tanto meno avanguardia) se non per il modo riduttivo in cui Glass le presenta e utilizza: ridotte a brandelli di un discorso mai iniziato e perciò mai proseguito, innocuo e del tutto ininfluente. Si dirà, appunto, che in ciò si ravvisa un’espressione dell’arte del nostro tempo. Ma quale espressione può essere costruita sul nulla, sulla mancanza di un prima e di un poi, di un’associazione o di un contrasto, di una relazione fra i suoni e i loro elementi?

Ancor meno, nel caso particolare, le cose funzionano drammaturgicamente. Il racconto di Poe ha una tensione angosciosa che si accumula nel finale, portando a conclusione una vicenda che per quanto avvenga in zone misteriose e allucinate della psiche ha una forte concretezza drammatica. E ciò è in aperta contraddizione con la mancanza di carattere della musica, con la ossessiva immobilità delle sue oziose iterazioni. I due fattori non entrano mai in collisione, rimanendo l’uno esterno all’altro. Anche perché la regia e le scene di Richard Foraman si distanziano dal libretto e non si misurano né col dramma né con la musica, preferendo inventare una serie di situazioni da trattato di paranoia (ma se la casa Usher èun manicomio dichiarato che resta del mistero di Poe?). Insomma, il risultato finale è la piú totale insensatezza: ma non una insensatezza ricercata ed elevata a simbolo di un’idea bensi una miscela collosa di vacui effetti senza causa. Padrone chi vuole di trovarci una virtù.

 

“The fall of the house of Usher” di Glass al Maggio Musicale Fiorentino (repliche stasera, domani e dopodomani)

da “”Il Giornale””

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