Messiaen, o della serenità

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Si è spento lunedí a Parigi all’età di 83 anni uno dei più importanti compositori del secolo

La sua opera, che la prossima estate sarà ricordata a Salisburgo, è stata un colloquio ininterrotto con i misteri di Dio e della natura – Non fu un caposcuola, ma tra i suoi allievi troviamo tutti i protagonisti della “Nuova musica”

 

Parigi – È morto lunedì notte a Parigi, in conseguenza di un intervento chirurgico, il musicista francese Olivier Messiaen, considerato uno dei piú autorevoli compositori contemporanei; aveva 83 anni.

 
E cosí Messiaen se n’è andato. Non ha fatto in tempo a esser presente alle celebrazioni che in suo onore, con clamore invero esagerato e del tutto estraneo alla sua figura di mite cantore della semplicità e della verità, il Festival di Salisburgo ha programmato per la prossima estate, quasi per attualizzarsi attraverso il riconoscimento della grandezza di un musicista che invece ormai appartiene, e non da oggi, alla storia e alla coscienza del Novecento. Prepariamoci dunque ad ancor piú solenni celebrazioni postume. Ma serenamente, come serena era la sua arte, inattaccabile alle strumentalizzazioni delle avanguardie come alla carità pelosa di chi bonariamente sorrideva di fronte allo spiritualismo mistico delle tante sue creazioni. Non per nulla l’immagine che per tanto tempo gli rimase appiccicata fu quella, quasi bruckneriana, dell’organista intento a improvvisare, a maggior gloria di Dio, nella chiesa della Trinità a Parigi, dove per anni prestò servizio come il piú umile dei musicisti.

Quella di Messiaen è stata una vita lunga ma quasi fuori del tempo e creativa alla maniera antica, di stampo artigianale nonostante la quantità quasi industriale della sua produzione. Una innata predisposizione a vedere nella musica un mezzo eletto di espressione e di comunicazione fra gli uomini, in un colloquio ininterrotto con i misteri della natura, con le voci amiche del creato e con le risonanze dell’anima, lo escluse di fatto, e assai presto, dalle battaglie per affermare questa o quella tendenza polemica. Non fu però un artista fuori della mischia: seppe invece scegliere con fedeltà gli ideali a cui ispirarsi, e li percorse fino in fondo con coerenza. Furono semmai gli altri a venire da lui, fino a riconoscerlo come da un maestro da cui era possibile imparare non solo una tecnica o uno stile ma anche un atteggiamento spirituale di fronte alla musica.

Altrettanto significativo è il fatto che nonostante negli anni caldi delle avanguardie – nel secondo dopoguerra – fosse il primo a tenere corsi di analisi da cui passarono tutti i protagonisti della «Nuova musica» – salvo distaccarsene, come Boulez, dopo aver affinato i ferri del mestiere – Messiaen non fu mai un caposcuola. Troppo personali per essere seguiti o sviluppati erano i motivi che muovevano la sua arte, e troppo riconoscibili i suoi prodotti per poter essere imitati. Gli stessi tratti compositivi di lui tipici – a cominciare dal suo famigerato sistema basato sui «modi a trasposizione limitata» o sui «ritmi non retrogradabili» – traevano valore non dall’impiego di una tecnica, nella quale si attuava piuttosto la ricerca di simmetrie ed equilibri linguistici sempre piú avanzati, ma dalla qualità delle invenzioni e delle possibilità espressive. E tutto questo in funzione di un’illuminazione, di un’epifania della grazia rappresentata dalla musica. Tutta la musica di Messiaen vive nell’attesa di una folgorazione capace di conciliare l’uomo con se stesso e con Dio. E ciò conta assai piú dei contenuti religiosi, simbolici o programmatici su cui i titoli delle sue opere ci informano: indicazioni per avvicinarsi all’ascolto e prepararsi all’attimo in cui avverrà la rivelazione. In questa tensione estatica la musica di Messiaen può arrivare a dilatare smisuratamente tempi e spazi, o a fissarsi in durevoli, ipnotiche sospensioni, a ingigantire dettagli minimi o a segmentare proporzioni enormi: l’infinito dei suoi cicli monumentali è l’altra faccia dell’istante in cui si concentra, esplodendo, la sua visionarietà.

Pèrché tutto questo fosse percepibile, l’arte non essendo fatta di intenzioni ma di realizzazioni, era necessario non saziarsi mai di riempire con i suoni i tempi e gli spazi della musica. Messiaen li andò sempre piú caparbiamente individuando non in una eredità storica – sebbene i suoi inizi si innestassero nella tradizione francese – ma nelle voci primigenie della natura: nei canti degli uccelli, che studiò e trascrisse fino a redigere un catalogo completo di quasi tutte le specie del mondo, e che poi utilizzò in svariate combinazioni e serie di composizioni, nelle melodie liturgiche, nelle scale indiane e dell’antica Grecia, colte nelle associazioni piú profonde della riflessione interiore. Ad esse donando la magia di un timbro che è l’aspetto piú riconoscibile della sua musica, e che si identifica a colpo come suo proprio. E su tutto, quasi a regolare questo flusso cosmico di molteplici echi, il lavoro strenuo, anche concettualmente, sul ritmo: la definizione di un ritmo avulso dalla periodicità, e inteso piuttosto come vibratile essenza della musica, proiezione sonora che scorre nel tempo impregnando di sé melodie, armonie e timbri, caleidoscopicamente.

I contenuti sempre evocativi delle sue composizioni, nelle quali ricorrono termini come ascensione, trasfigurazione e visione, quando non denuncino esplicitamente i richiami di tradizioni extraeuropee – di cui egli fu uno dei piú originali indagatori, ma mai in contrasto, rottura con la sua formazione occidentale – sono la sostanza che racchiude una volontà di indirizzare la musica verso mete piú alte, assolute: mediate e trascritte in forme percepibili. In

fondo egli recava già nel cognome quella che sarebbe stata la sua missione: dare alla musica prospettive messianiche, nutrire una speranza di libertà intrisa di gioia e di luce.

da “”Il Giornale””

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