Gli anni della maturità del pianista Rubinstein raccontati nelle pagine autobiografiche
I1 secondo volume dell’autobiografia di Arthur Rubinstein (My many years, gli anni della maturità) comincia con il fragore dello scoppio della prima guerra mondiale e finisce con il dolce, sereno epilogo del congedo e dei ringraziamenti di un ultranovantenne, a luci ormai spente (non solo metaforicamente: Rubinstein era diventato quasi cieco). In tutto fanno oltre sessant’anni di carriera e di battaglie, di piaceri (molti, anzi moltissimi) e di delusioni (poche, e non influenti): la vita di uno dei piú grandi e longevi pianisti del nostro secolo (nato nel 1887 a Lodz, povero ebreo polacco, morì carico di fama a Ginevra nel 1982, giusto dieci anni fa) fu un turbine di cui perfino le descrizioni e i ricordi riescono a dare solo una pallida idea. E non perché Rubinstein non sia in grado di fissarli, al contrario; ma perché essi sono inimmaginabili al di fuori dell’attimo fuggente che li racchiude, e acquistano significato non nella memoria ma nella realtà dei fatti, piccoli e grandi. Che Rubinstein li abbia vissuti e ora ce li racconti accresce non tanto la curiosità quanto l’invidia: ecco una vita bevuta davvero fino all’ultima goccia, con una avidità e una leggerezza incantevoli.
Probabilmente sarebbe accaduto lo stesso se Rubinstein non fosse stato il sommo pianista che fu. Musicista eccezionalmente dotato, certo, ma soprattutto artista al cento per cento, in ogni manifestazione della sua persona: nelle galanterie verso le donne (che corteggiava non pel piacer di porle in lista, ma perché non poteva fare a meno di ammirarle), nella generosità disinteressata verso gli amici, nell’atteggiamento divertito verso il successo e la fama, e perfino nella vita quotidiana, faticosa per un concertista ma affrontata sempre con grazia. Di cui la musica era certamente la ragione piú profonda, ma non separata dal resto: e ciò contribuiva in modo non inessenziale al fascino stesso delle sue esecuzioni, tutt’altro che fredde lezioni di stile o mere esibizioni di tecnica mirabolante, e nello stesso tempo lontane da quell’astrazione pensosa che colloca la sfera dell’arte in un assoluto incondizionato. Una bella donna sconosciuta seduta in prima fila a un suo concerto bastava per cambiare improvvisamente la temperatura dell’interpretazione, per riaccendere sul momento un misterioso fuoco espressivo; la tensione di un affanno o di un inciampo si scioglieva nell’oblio dato dalla musica, nel regno dell’euforia o del raccoglimento. L’arte esaltava la vita, perché la vita – sembra dire Rubinstein – è un’arte imprevedibile, che va colta al volo.
Questo è il tono di fondo dei suoi racconti. Nei quali una vitalità frenetica, ma capace di gustare sempre l’incanto dell’istante, si accompagna costantemente all’ironia, mezzo supremo di oggettivazione.
Non un’ironia acida, anzi: piuttosto il sorridente distacco di chi sa che ciò che deve ancora venire sarà, o potrà essere, piú bello di ciò che si è perduto. Dunque una forma di relativismo di segno costruttivo e positivo. Forse è qui anche il segreto dell’ispirazione di Rubinstein e del suo pianismo; di cui nell’autobiografia si parla solo indirettamente, ma sempre in punti culminanti, rivelatori. Il piú istruttivo è questo: «Sin da quando ho cominciato a suonare il pianoforte, non mi sono mai accontentato del suono dello strumento e basta; piuttosto, consideravo compito delle mie dita tirare fuori la musica che sentivo cantare dentro di me. Si, è così, ho sempre voluto che il pianoforte, che pure è uno strumento a percussione, cantasse». E naturalmente ciò che cantava dentro di lui non era solo la musica scritta.
Rubinstein sembra sincero quando confessa che l’esuberanza pianistica e la facilità tecnica di Vladimir Horowitz, suo grande rivale, «mi facevano vergognare profondamente della mia persistente negligenza e pigrizia nel portare alla luce tutte le possibilità del mio naturale talento per la musica». Vero è che non manca, altrove, di fare dell’ironia anche su Horowitz, nella cui proverbiale avarizia vedeva un tratto meschino. D’altronde, al dissipatore Rubinstein «niente piaceva piú di un intelligente scambio di vedute sulla scottante questione delle ragioni dell’esistenza, che, naturalmente, non portava ad alcuna conclusione, ma della quale era bello esplorare le diverse sfaccettature». Abbiamo qui la chiave per leggere la biografia di Rubinstein. Per trarne forse un insegnamento: se la somma non è automaticamente la totalità, ogni sfaccettatura racchiude una parte del tutto. Così, alla fine della splendida avventura, anche l’arte e la vita sembrano trovare un’unità organica non solo nella realizzazione di un destino ma anche nella forma armoniosa delle loro intrecciate proporzioni. Rubinstein si congeda con un’immagine stupenda: «Ripensavo alla mia intera carriera nella forma di una sonata. Il primo movimento rappresentava le lotte della mia giovinezza, il successivo Andante il periodo in cui avevo cominciato a coltivare piú seriamente il mio talento, lo Scherzo rappresentava bene il mio grande e inaspettato successo e il Finale era una meravigliosa e commovente conclusione».
Arthur Rubinstein, «Autobiografia, gli anni della maturità», pref. e note di Piero Rattalino, trad. di Maria Consiglia Vitale, Flavio Pagano ed., pp. 601, lire 70.000
Metti una sera a cena con Stravinskij
Dall’autobiografia di Rubinstein presentiamo un passo che si riferisce all’epoca in cui, con lo scoppio della seconda guerra mondiale, molti artisti europei e russi si ritrovarono esuli in America.
Un giorno mi telefonò Rachmaninov. «Ci farebbe piacere avere lei e sua moglie a cena domani sera. Ci saranno solo gli Stravinskij».
«Cosa? Gli Stravinskij?». Non potevo crederci.
«Ah, mia moglie e la signora Stravinskij hanno fatto amicizia al mercato». Ah, ah!, ora era tutto chiaro. I due uomini avevano parlato con un tale disgusto l’uno dei lavori dell’altro che era inconcepibile immaginarli a cena insieme.
Arrivammo un po’ in ritardo ed ecco la scena: Rachmaninov, seduto su una sedia bassa, si lamentava di un mal di stomaco, tenendosi una mano sulla pancia. Stravinskij nel frattempo girovagava nella stanza osservando i libri poggiati sugli scaffali, apparentemente con grande interesse. «Ah, lei legge Hemingway, vero?», chiese al padrone di casa.
«Abbiamo affittato questa casa con i libri e tutto», borbottò il nostro ospite. Le due signore chiacchieravano serenamente in un angolo.
Dopo un po’ fu annunciata la cena. Quando ci fummo accomodati a tavola, Rachmaninov, secondo la migliore tradizione russa, versò la vodka da una caraffa, sollevò il suo bicchierino e, facendo un cenno dal capo verso di noi, bevve. Noi assaggiammo alcuni «zakuski» [antipastini]; lui ripeté il gesto e poi bevemmo tutti. Dopo un po’ vuotammo un altro bicchierino e fu solo allora che la conversazione si animò. Dopo un boccone di caviale pressato, Rachmaninov si rivolse a Stravinskij con una risata sardonica dicendo: «Ah, ah, ah! il suo Petrushka, il suo Uccello di fuoco, ah, ah! non le hanno mai dato un centesimo di diritti d’autore, eh?». Il volto di Stravinskij si infiammò e subito dopo divenne pallido di rabbia. «E che ne dice del suo Preludio in do diesis minore e di tutti quei suoi Concerti pubblicati in Russia, eh? Doveva suonare per guadagnarsi da vivere, eh, eh?».
Le due signore e io eravamo terrorizzati che ciò potesse portare a uno spiacevole diverbio tra i due compositori, quand’ecco che avvenne l’esatto contrario; tutti e due si misero a fare il conto di quello che avrebbero potuto guadagnare, con un impegno tale che, quando ci alzammo da tavola, loro due si appartarono a un tavolino e continuarono a fantasticare delle immense fortune che erano loro sfuggite. Quando ce ne andammo, si scambiarono una calorosa stretta di mano sulla porta e presero l’impegno reciproco di trovare altri conti sui quali riflettere.
da “”Il Giornale””