L’ensemble in concerto a Firenze
Il multiforme sperimentalismo del repertorio contemporaneo non ha entusiasmato
Firenze – Il Quartetto Kronos (David Harrington e John Sherba violini, Hank Dutt viola, Joan Jeanrenaud violoncello) è un complesso americano che ha raggiunto una certa notorietà anche in Europa, fino a diventare una specie di fenomeno della nuova musica. È l’unico quartetto d’archi che suoni esclusivamente musica del nostro secolo.
Agli «Amici della Musica» di Firenze, che al repertorio classico del quartetto dedica da anni una assidua attenzione, la presenza del Kronos era una novità, ma si offriva, crediamo, come un esempio estremo della ricerca musicale contemporanea al di là delle barriere che separano la musica colta da quella di consumo (oltre ai minimalisti americani il Kronos predilige soprattutto gli adattamenti dal rock e dintorni, per cui è famoso). Ora, l’idea che oggi esistano ancora compositori che si cimentano col quartetto d’archi è di per sé curiosa. Sentirne le realizzazioni ha confermato la strepitosa bravura dei quattro strumentisti, che evidentemente hanno alle spalle una solida formazione accademica (che a bella posta stride con l’abbigliamento stravagante con cui si presentano a suonare), ma ha anche dimostrato quanto lontano sia questo modo riproduttivo dalla tradizione europea e come si inscriva in una mentalità soprattutto improvvisativa e spettacolare. E non tanto perché il gruppo si serve di sofisticate apparecchiature di amplificazione direttamente collegate con gli strumenti (una sorta di quartetto elettrico, insomma), quanto perché gli effetti che ne conseguono appartengono piú al genere dell’happening multimediale, con suoni elaborati, giochi di luce e gestualità esibita, che a quello di un normale concerto. E se si deve valutare in queste condizioni l’esecuzione dell’unico pezzo «storico» in programma, ossia i Cinque movimenti op. 5 di Webern, l’impressione è di una disinvoltura ai limiti dell’incoscienza.
L’ampio ventaglio di musiche recenti di provenienze diverse presentate dal Kronos – nel programma c’erano rappresentanti africani, canadesi, russi, polacchi e naturalmente americani, i piú solerti ad inventare capricciose contaminazioni di stili ed effetti – indicava quanto dispersiva sia la sperimentazione musicale contemporanea nella totale assenza di una koiné linguistica, e nello stesso tempo come ognuno di questi autori cerchi un’ancora di salvezza o nell’affabulazione sconnessa e caotica, lugubremente giocosa, o nel ripiegamento solitario in una zona dello spirito diseredata ed alienata. Per esempio il lungo, disarticolato Quartetto numero 2 (Quasi una fantasia) del polacco Gorecki s’intestardiva a cantare liricamente la desolazione come premessa dell’illuminazione mistica, in un’ascesi progressiva incapace di elevarsi oltre il lamento su una condizione esistenziale cupa. Il tutto con una elementarità di linguaggio da alba dopo l’apocalisse. Ma tutto il concerto, al di là degli effimeri fuochi d’artificio, aveva un’aura di tristezza, un tono di sconsolante senso d’impotenza o di ludica vanità. Uno specchio, certo, di aspetti della nostra epoca.
da “”Il Giornale””