Cent’anni fa nasceva Arthur Honegger, l’autore di «Pacific 231»
Il nome di Arthur Honegger di cui cade il centenario della nascita, è uno di quelli che anche chi non sia addentro alle cose musicali conosce almeno di riflesso. La presenza del compositore nell’arte fra le due guerre fu in effetti massiccia, ma non può essere racchiusa in un’unica corrente: e ciò rende difficile l’identificazione. Non c’è, di lui, un’opera specialmente rappresentativa o di punta, che s’imponga sulle altre e definisca una tendenza dominante in rapporto all’evoluzione della musica del Novecento. Nonostante una produzione molto vasta che tocca quasi tutti i campi della musica del nostro secolo, la sua carriera descrive una parabola compiuta in se stessa.
Honegger aveva avuto un’educazione musicale rigorosa al Conservatorio di Parigi, d’impronta classicistica e germanofila. Per lui fu naturale, fin dagli anni della formazione, vedere una continuità nella grande tradizione musicale europea, le cui radici affondavano nel pensiero compositivo polifonico di Bach e si prolungavano fino a Strauss e Reger, ultimi rappresentanti di un’idea solidamente architettonica della forma. La conoscenza della musica francese contemporanea, soprattutto dell’impressionismo di Debussy, lo spinse ad aggiornare il linguaggio, a cercare non solo nella musica ma anche nella letteratura e nella pittura del tempo fonte di ispirazione e di suggestione. Nel 1918, con le liriche Alcools da Apollinaire, Honegger dette un primo saggio di questo mutamento di stile, tuttavia non univoco; giacché con la Pastorale d’été, due anni dopo, già opponeva a quella vertiginosa disarticolazione sonora delle immagini poetiche una pagina limpida ed elegante di serena distensione, tutta interna alle ragioni espressive della musica.
Si avviava intanto, dopo alcuni successi di scandalo nel teatro, la sua adesione al «Gruppo dei Sei», di cui avrebbe fatto parte insieme a Milhaud, Poulenc, Auric, Durey e alla Tailleferre. Questa adesione avvenne piú sulla spinta della sua ammirazione per Cocteau, l’ideologo del gruppo, che per effettiva concordanza sul piano musicale con le battaglie dell’avanguardia parigina capeggiata da Satie. Verso la quale Honegger mantenne sempre una diffidenza di natura anzitutto intellettuale, non condividendone la radicale semplificazione e l’oggettivismo lineare. Lo spirito polifonico che aveva assorbito con l’idea stessa di musica si opponeva a drastiche riduzioni; e forse anche agli eccessi di parodia e di dissacrazione: qui era il suo spirito eminentemente costruttivo a opporsi.
La stessa estetica del «circo, del luna park e del music-hall», quand’era separata da motivazioni piú concrete come l’amore comune per il jazz e il folklore, andava stretta a Honegger. Anche un’opera dichiaratamente d’avanguardia come Pacific 231, del 1923, non ne fu riconosciuta dagli stessi amici come rappresentativa. In quest’opera Honegger «imitava» con i suoni di un’orchestra tradizionale l’aumento progressivo di velocità di una locomotiva di 300 tonnellate lanciata, in piena notte, a 120 all’ora. Ma anch’essa (come Rugby del 1928, immagine vita) istica del rito spettacolare dello sport) non nasceva affatto dal fascino di un «modernismo meccanico» fine a se stesso bensì dalla
passione fortissima per la tecnica e per il gioco, e dalla curiosità di tradurre un’impressione visiva in una costruzione musicale del tutto astratta e ideale, quasi razionale: lirica e patetica insieme. Nelle nervature ritmiche e nel contrappunto densissimo di questa curiosa contemplazione Honegger poteva vedere in controluce la stessa logica compositiva di una fuga di Bach.
Il distacco dall’avanguardia, di cui Honegger aveva condiviso l’aspetto di rinnovamento e di ricerca ma non quello di rifiuto del passato, coincise con l’inizio della terza fase della sua produzione, la piú complessa e apparentemente eclettica, sperimentale anche su versanti come la musica per film (ben 46 colonne sonore, fra cui quella per il colosso Napoléon di Abel Gance). In realtà questa fase corrisponde a una lunga sintesi di atteggiamenti diversi, nella quale il senso della storia – e della frattura con la storia che almeno in parte l’Arte del Novecento rappresentava – si riconnetteva all’intento di fissare alcuni punti fermi, di carattere non solo formale ma anche spirituale ed etico. E se la musica da camera costituiva un esercizio di concentrata sapienza costruttiva, dove a contare era solo il rapporto del creatore con la materia da plasmare, in altri generi, come nella Sinfonia e nel teatro, era possibile ampliare le prospettive in senso non solo formale. Le cinque Sinfonie che Honegger compose tra il 1930 e il 1951 sono non solo un grandioso ripensamento della forma classica ma anche una testimonianza della sua fede in una visione positiva del mondo e dell’uomo, talvolta partendo proprio dalla trasfigurazione della realtà piú dolorosa: la terza, denominata Liturgique e composta nel 1946, si divide in tre movimenti intitolati rispettivamente Dies irae, De Proofundis, Dona nobis pacem. Quanto al teatro, Honegger coltivò accanto a generi antichi e moderni in collaborazione con i maggiori esponenti della cultura letteraria francese dei suoi anni – da Rostand a Cocteau, da Valéry a Claudel a Giraudoux – un nuovo tipo di oratorio drammatico che corrispondeva esemplarmente alla sua riflessione sul contrasto tra fede e ragione: di cui Giovanna d’Arco al rogo (1938) è un capolavoro non tanto per il sostegno dato all’enfatico testo di Claudel quanto per la capacità della musica di esprimere uno stato d’animo.
L’etichetta di «conservatore illuminato» coglie solo in parte la posizione di Honegger nella musica del Novecento. Quando la nostra visione dei fatti si sarà decantata, allora potrà emergere dallo sfondo questa figura di artigiano che seppe valorizzare un patrimonio di gusto e di cultura mettendolo al servizio delle novità del giorno; ma con la convinzione che la musica non potesse rinunciare alle sue prerogative di arte capace di raffigurare una condizione umana eterna.
da “”Il Giornale””