Profili medici di grandi compositori fra Sette e Ottocento tracciati da John O’Shea
C è tutta una letteratura che tratta dei rapporti fra malattia e arte. E si sa che nell’ambito del Romanticismo e del Decadentismo la malattia è stata vista talvolta come un’alleata potentissima dell’artista. «Di ciò che è sorto lungo la via della morte e della malattia non poche volte la vita si è impossessata con gioia e se n’è fatta portare avanti e portare piú in alto», spiega il diavolo in persona al compositore tedesco Adrian Leverkühn nel famoso XXV capitolo del Dottor Faustus di Thomas Mann: il piú solerte nel cercare stupefacenti agganci tra malattia e creatività, con speciale predilezione per la musica.
Il libro di John O’Shea Musica e medicina (sottotitolo: Profili medici di grandi compositori) è molto piú prosaico, non ha ambizioni letterarie e critiche, ma getta una luce sulle condizioni di vita e di salute dell’artista nella sua epoca e sulle cause (reali o
ipotetiche) che ne hanno determinato la morte, spesso prematuramente. Di venti compositori, da Bach a Gershwin, il dottor O’Shea, storico della medicina australiano trapiantato a Londra, ricostruisce il quadro clinico basandosi non solo sulle testimonianze e sulle documentazioni d’epoca ma anche sulle acquisizioni piú recenti in campo medico. La sua ambizione non è di trovare nessi diretti tra stato di salute e arte, ma semmai di chiarire in che misura l’insorgere e l’aggravarsi di certe malattie abbiano condizionato la vita degli artisti, riflettendosi anche sulla loro opera.
Lo scoglio piú arduo in questo esame è rappresentato dall’imprecisione e inaffidabilità dei resoconti medici coevi o immediatamente successivi ai fatti, ma soprattutto dalla sovrapposizione di miti e leggende tendenti a vedere nelle caratteristiche fisiche dell’artista i segni della genialità: è il caso per esempio di Paganini, il cui mirabolante virtuosismo e la,cui, decadenza fisica furono circondati da un’aura demoniaca. O viceversa dalla tendenza a mascherare con informazioni false o reticenti certe manchevolezze e debolezze che non si uniformavano alla visione eroica dell’artista, o alla nobiltà della sua musica. Che nel caso di Beethoven l’abuso di alcool abbia contribuito in maniera decisiva alla malattia finale (Beethoven morì a cinquantasette anni di insufficienza epatica causata da cirrosi del fegato) è una verità che fu a lungo tenuta nascosta o sottaciuta per non infangare l’immagine del titano; e altrettanto vale per Schubert, morto appena trentunenne di febbre tifoide endemica successiva a un’infezione sifilitica che studi piú recenti (curiosamente sfuggiti all’autore) attribuiscono invece a rapporti omosessuali (strano davvero che qualche imbecille non abbia ancora sparato il titolo: «Schubert morì di Aids»).
O’Shea si chiede, nelle risposte procedendo sempre con grande tatto, quanto abbia influito sul lavoro dei compositori il grado di invalidità fisica ed emotiva che oppresse la loro vita. In molti
casi ad aggravare la situazione contribuirono cure sbagliate, conseguenza di una ciarlataneria bell’e buona. Tanto Bach quanto Händel furono vittime degli esperimenti dell’infame cavalier Taylor, che li ridusse entrambi alla cecità. I mezzi usati per curare la sordità di Beethoven furono palesemente inadeguati anche per le conoscenze dell’epoca. In alcuni casi le malattie avevano radici organiche o ereditarie (la tubercolosi per Weber e Chopin, l’ipertensione per Mendelssohn, l’endocardite congenita per Mahler) o un decorso imprevisto che impedí una prognosi esatta (come il tumore di Gershwin e l’afasia di Ravel). In altri casi, e sono forse i piú problematici, la malattia si manifestò con sintomi psicotici, manie suicide e deliri schizofrenici ricollegabili a disturbi mentali e a cause psichiche: la sindrome di Rossini, la pazzia di Schumann, la depressione degli ultimi anni di Liszt. Uno dei meriti di O’Shea consiste nel servirsi dei progressi compiuti nel nostro secolo dalla medicina per avanzare diagnosi scientificamente fondate, senza però avventurarsi, col senno di poi, a indicare possibili terapie salvifiche.
Le somme sono spesso amare. Sicuramente gli artisti non godevano di una protezione maggiore dei comuni mortali, e anzi spesso si concedevano abusi piú o meno tollerati per attenuare o favorire la tensione creativa. Bach e Händel erano accaniti fumatori di pipa, Mozart, Beethoven e Schubert non seguivano certo norme corrette di alimentazione; e la condizione sociale dell’artista non era tutelata. Eppure, fossero o meno in relazione con la malattia, le loro opere illuminavano il mondo, trasfiguravano le coscienze. Chissà che uno dei motivi della crisi della musica contemporanea non stia proprio nella possibilità dei compositori d’oggi di avere un’assistenza sociale, il ticket sanitario e l’assicurazione sulla vita.
John O’Shea, «Musica e medicina,.Profili medici di grandi compositori», Edt. pp. 224, lire 29.000
da “”Il Giornale””