Brevi cenni sull’universo. Il sacro e il banale

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Genova – Sofija Gubaidulina, sessant’anni, tartara, è una scoperta di questi ultimi anni. In Italia è circondata da molta attenzione: a Torino Settembre musica le ha dedicato quest’anno il suo festival, e la Edt una monografia. A Genova si presenta con uno spettacolo ambizioso, bello ma misterioso nel titolo (Orazione per l’era di acquario) e alquanto scomposto nella forma (la definizione è Oratorio-Opera-Balletto). In realtà non è sicuramente né un oratorio né un’opera, e forse nemmeno un balletto, almeno in origine: due terzi della musica sono nati in precedenza, e sono una sinfonia, Pro et contra, del 1989, e un Alleluja per coro e orchestra del 1990; nuovo è solo l’epilogo, la Lauda per voce recitante, contralto, tenore, baritono, coro e orchestra, scritta per quest’occasione. Questi pezzi si ascolterebbero con molto maggior profitto nella concentrazione di una sala da concerto, senza vederli gravati da una piccola storia a dispense dell’uomo e dei suoi peccati, della sua dannazione e del suo riscatto: soprattutto quando a eseguirli è un mago del suono come Rostropovic, direttore capace di far brillare qualsiasi orchestra (e dunque anche questa, in sé non certo esaltante). E proprio per il suono la Gubaidulina ha una sensibilità acuta, unita a una purezza che anela all’espressione immediata, calda e innocente.

La Sinfonia si basa sul contrasto di idee melodiche elementari, volutamente semplici e primitive, quasi a voler dare l’idea di una musica primigenia che emerge dal buio del caos primordiale. Linee che procedono per lo piú per grado congiunto, come antiche melopee ecclesiastiche, e che si intrecciano in contrappunti essenziali senza però dar vita a una vera e propria polifonia, costituiscono l’ossatura di questa partitura: timbricamente alquanto uniforme e ripetitiva. Poi, nell’Alleluja, interviene la voce umana, e le cose cambiano. Singolare la genesi di questo lavoro, nato come meditazione funebre e divenuto poi un ardente inno di gioia, una celebrazione della vita come resurrezione dell’anima. Le voci si spingono verso l’acuto quasi a penetrare nell’enigma della morte, e si distendono in una rappacificata estasi sonora; la tensione orchestrale si accende fino all’epifania della luce. Dopo questa pagina di notevole intensità la Lauda che chiude il trittico fa quasi l’effetto di una doccia fredda. antiquato e poco incisivo lo stile, retorico l’uso della voce recitante (nonostante la bella dizione di Galina Vishnevskaja), imbarazzante la conclusione trionfalistica. Gubaidulina spiega che «non vi è ragione piú seria della ricomposizione dell’integrità spirituale per comporre musica». Ma, più che mai oggi, per ritrovare il senso del sacro e dello spirituale nell’arte non basta far ricorso a triadi perfette e melodie diatoniche, se il processo che conduce ad esse è semplificato e ridotto fino alla banalità.

da “”Il Giornale””

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