Una raffinata ma fredda lettura dell’opera di Massenet ha aperto festosamente la stagione lirica di Bologna
Bologna – I francesi si distinsero nel teatro d’opera anche per la divulgazione della grande letteratura tedesca, e di Goethe in particolare. Cominciò Berlioz, con il Faust: ma il compositore piú geniale che mai nascesse in quel suolo comprese che quella era già «l’opera» e dunque non poteva diventare «un’opera». E cambiò rotta, lasciandoci solo un fiammeggiante spaccato della leggenda.
Non andò così con Gounod, il quale del Faust fece quel prototipo del dramma lirico che molta fortuna avrebbe avuto nel secondo Ottocento, e non solo in Francia. Anche i tedeschi se ne infatuarono, ma pretesero che il titolo fosse cambiato in Margarethe. Esaurito il Faust, fu la volta della Mignon e del Werther. Della prima Thomas fece un’opera atipica, gracile come un fiorellino di campo; nel secondo invece Massenet ritrovò entusiasmi sopiti per il suo tardo capolavoro.
Che Goethe mal si adattasse al teatro d’opera, sia per forma che per contenuti, lo aveva attestato già Wagner. In Opera e dramma il nome di Goethe ricorre piú volte, ma solo per negare una qualsivoglia adattabilità al teatro musicale, opera o dramma che fosse. In musica il mondo di Goethe è semmai quello del Lied, e certamente tocca con Schumann, nelle Scene dal «Faust», uno dei vertici anche drammatici. Nel suo repetorio ideale di teatro d’opera Richard Strauss non menziona alcuno di questi titoli, come del resto non ammette opere i cui libretti siano tratti dalla grande letteratura classica.
Naturalmente il Werther di Massenet non può essere giudicato su questa falsariga. Piú che la trasposizione sulla scena del romanzo epistolare di Goethe, esso è l’omaggio appassionato a un eroe cosa come Massenet poteva intenderlo, quasi astraendolo dalla storia. L’opera non segue affatto il periplo dell’amore impossibile e dei dolori del giovane Werther, ma innalza Werther a simbolo dell’amorosa infelicità , per assumenre i toni crepuscolari dell’elegia, affondare nel raccoglimento estatico e riemergere nello sfogo lirico. Quando Werther entra in scena, il suo destino è già segnato nella musica: ciò che segue è solo una giustapposizione di quadri che non rappresentano una tragedia ma rievocano un’emozione, esprimendola liricamente e liricamente dissolvendola. La stessa Charlotte (per non parlare degli altri personaggi) vive nell’orbita di Werther; e l’ambientazione serve ad accrescere l’estraneità dell’eroe dalla realtà che lo circonda, fatta di bambini che cantano le loro canzoncine di Natale come se nulla fosse e di piccoli riti borghesi, molto rassicuranti.
Hugo de Ana, regista scenografo e costumista della nuova produzione di Werther che ha inaugurato la stagione del Comunale di Bologna, ha voluto porre l’accento proprio su questa estraneità, su questo contrasto fra un mondo ordinato, dove tutto è lindo e tranquillo, e la passione che brucia in Werther. Talvolta esagerato nell’un senso e nell’altro: troppo calligrafica la sua ricostruzione di terrazze fiorite, piazze e salotti, tutto così rileccato e lezioso da sembrare fintamente realistico; e troppo marcata in senso melodrammatico la recitazione. Non c’è bisogno di costringere continuamente Werther a cadere a terra per rappresentare la sua vertigine, né tanto meno di doppiare con i gesti ciò che la musica dice benissimo da sola. La mancanza di ironia è il tratto debole di questa visione, che si basa comunque su un dato di fatto: la caratteristica staticità delle scene e la fondamentale oleografia che fa da contorno alla musica.
Giuseppe Sabbatini è Werther. Se si tagliasse la barba, qui francamente improponibile, avrebbe l’aspetto giusto, la giusta predisposizione al personaggio. La voce non è sempre piena e rotonda, ma il fraseggio è curatissimo, elegante e misurato. Molto intelligente lo sforzo di costruire un personaggio con un suo spessore senza preoccuparsi solo dei momenti topici, ossia dei grandi appuntamenti con le arie. Quella piú famosa «Pourquoi me reveiller» è stata salutata da un’ovazione, sia perché Sabbatini l’ha cantata veramente bene sia perché è un pezzo che da solo vale tutta l’opera. Bellissima conferma la costante maturazione di Gloria Scalchi, Charlotte. Sicura l’intonazione, precise le intenzioni, credibile la figura. Una sensibilità naturale nella voce, con evidente disciplina nella testa e pulizia nel gesto. Davvero brava. Adelina Scarabelli è una sicurezza in ruoli di sponda come quello di Sophie; Didier Henry e Carlo De Bortoli, in personaggi sbiaditi ma proprio per questo insidiosi, hanno ben figurato, al pari dei comprimari.
Riccardo Chailly meriterebbe un lungo discorso a parte. Questo direttore di sicuro talento stenta ancora a trovare una dimensione compiuta. Con lui l’orchestra suona sempre bene, il lavoro di assieme è di prima qualità, ma non ne vengono alla luce idee interpretative chiaramente delineate. Nel Werther Chailly ha rinunciato programmaticamente ai colori, alle sfumature e alla leggerezza dei respiri e dei rubati, per puntare ora sulla compattezza e sulla densità della scrittura ora sulla delibazione delle eleganze e delle raffinattezze strumentali ed armoniche. I tempi, molto sostenuti, sembravano voler allontanare ancor piú la partitura da un’immediatezza d’ascolto, quasi per farcela contemplare attraverso un vetro, come una serra di bellezze articifiali.
Inaugurazione molto festosa, come a Bologna è di norma, e successo di pubblico lietissimo, nonostante la triste vicenda, per tutti.
«Werther» di Massenet al Comunale di Bologna (repliche il 26 e 28 novembre; 1, 3, 5, 7, 10,13 e 15 dicembre)
da “”Il Giornale””