Graz – Quanto vale il teatro di Schubert? È davvero, come la storia ha decretato, una produzione minore, irrecuperabile, mancante di forza drammatica nonostante la profusione di bella, talvolta bellissima musica? Sono circa una ventina, contando anche gli abbozzi, le opere che Schubert ci ha lasciato: lavori che per la massima parte furono rifiutati o respinti già alla loro epoca e che attendono ancora una rivalutazione nelle rare occasioni in cui qualche teatro si arrischi a presentarli in cartellone.
Lodevolissima era dunque la proposta dell’Opera di Graz di aprire la stagione con Alfonso und Estrella: tentativo con il quale nel 1821 Schubert intraprese una svolta piú che mai risoluta verso la strada ancora inesplorata della grande opera romantica. Un progetto ambizioso, che nelle intenzioni del compositore doveva rappresentare la saldatura dell’opera italiana del tempo con le nuove prospettive appena aperte da Weber nel teatro nazionale tedesco. Un’opera interamente cantata, costituita di 34 numeri disposti in tre atti ma organizzati in modo da stabilire, al di là degli stessi pezzi chiusi solistici e d’insieme, una continuità di carattere eminentemente musicale. Lo sviluppo delle singole scene fino al culmine e allo scioglimento finale è determinato infatti non tanto dall’evolversi di conflitti drammatici quanto da una fitta rete di associazioni musicali che segue un suo corso e ha una dinamica basata soprattutto sui contrasti armonici. Siamo agli antipodi del melodramma, ma anche dell’opera d’arte totale: per Schubert l’azione è solo una traccia che permette di accostare scene preparate e risolte musicalmente, dove la ricchezza melodica sia principio incontra-stato, all’interno di una elaborazione che non mira a condensare ma a moltiplicare l’evocazione fantastica di caratteri e situazioni, quasi allontanandoli dal contesto drammatico.
Il libretto di Franz von Schober, pur con le sue ingenuità, non manca di fornire i tempi e gli spazi alla musica necessari per espandersi e affermare le sue ragioni. Esso è funzionale agli scopi della musica: quelli di ricreare il dramma assimilandolo e restituendolo trasfigurato nelle proporzioni e misure del suo proprio linguaggio. Senza pretendere l’originalità il soggetto dipana invece la sua trama secondo convenzioni riconosciute e rispettate: un re spodestato e saggio, un usurpatore dallo spirito tormentato, un sinistro generale che a sua volta aspira a prendere il posto dell’usurpatore e vorrebbe sposarne la figlia, Estrella. La quale invece ama, ricambiata, Alfonso, figlio del re nemico, e unendosi a lui riesce a sventare la congiura e a riportare, con la vittoria dell’amore, la pace e la giustizia. Invano si cercherebbe in queste vicende un assunto morale. È sintomatico che a dominare siano soprattutto duetti nei quali la contrapposizione fra stati d’animo e personaggi tocca l’apice senza portare alla sintesi, ma piuttosto a una sospensione di giudizio. Questo tipo di teatro, con il suo romanticismo puramente lirico, non poteva avere molta fortuna fra i contemporanei proprio per la mancanza dei requisiti allora imperanti: il virtuosismo belcantistico da un lato, la decisa affermazione dei principi dell’opera nazionale tedesca dall’altro.
È strano però che ancora oggi si continui a ignorarlo, e a giudicarlo secondo sistemi che non gli appartengono; nonché a rappresentarlo con presupposti sbagliati, come a Graz. Dove a una esecuzione musicale che rendeva un’idea esatta della partitura, per di piú in versione prossoché integrale, grazie alla direzione consapevole e a tratti ispirata di Mario Venzago e a una compagnia di canto fatta tutta in casa e di buona qualità, si contrapponeva la regia attualizzante e caricata di simboli estranei di Martin Schüler, con scene e costumi disperantemente brutti. Ma anche in tali condizioni la fondamentale esperienza dell’ascolto in teatro confermava che quest’opera, come e piú di altre di Schubert, meriterebbe tanta, tanta attenzione.
da “”Il Giornale””