Esposta a Vienna gran parte dell’opera pittorica del musicista Arnold Schönberg
Vienna – «Lei sa che io dipingo, ma non sa che i miei lavori sono stati molto lodati da alcuni intenditori. L’anno venturo farò anche un’esposizione. E così ho pensato che forse lei potrebbe indurre qualche suo amico mecenate a comprarmi dei quadri o a lasciarsi fare il ritratto. (…) Lei non dovrebbe dire a questa gente che i miei quadri potranno loro piacere. È necessario invece che faccia loro capire che i miei quadri devono piacere, perché sono stati lodati da autorevoli competenti; e poi, soprattutto, che è molto piú interessante farsi fare un ritratto o possedere qualcosa dipinto da un musicista della mia fa-ma, piuttosto che rivolgersi a un qualsiasi imbrattatele del cui nome fra vent’anni non si ricorderà nessuno, mentre il mio appartiene già da oggi alla storia della musica».
Questo passo di una lettera del 7 marzo 1910 al direttore della Universal Edition Emil Hertzka è il motto della mostra che il Museo del XX se-colo di Vienna ha dedicato al-l’opera pittorica di Arnold Schönberg a quarant’anni tondi dalla sua morte (fino al 17 novembre; poi a Colonia e Manchester): la raccolta piú completa (circa 300 opere) che sia mai stata fatta finora di una produzione a cui Schönberg si dedicò con particolare fervore tra il 1907 e il
1912 e che culminò nella partecipazione al «Cavaliere azzurro» di Monaco. Dopo di allora Schönberg rifiutò ogni ulteriore esibizione dei suoi quadri, ma non smise mai di dipingere nei momenti di svolta estrema della sua creazione artistica.
Che cosa dipingeva Schönberg? Soprattutto ritratti e autoritratti; se ne contano quasi duecento fra schizzi, abbozzi e quadri finiti, di dimensioni varie: moltissimi volti, di fronte e di profilo, qualche busto, piú raramente figure intere, con sfondi di interni molto borghesi e decorosi. Tra questi spiccano i cinque della prima moglie Mathilde, stranamente freddi e distaccati, e quelli di Alban Berg e della moglie Helene, dove l’affetto per persone care si manifesta anche nell’evidente desiderio di dare un’immagine di rispettabilità e di grandezza (non solo esteriore) alle figure. Il disegno si ingentilisce e si sfuma invece negli ultimi ritratti della seconda moglie Gertrud e dei figli. Non solo, quando Schönberg ritrae se stesso l’ossessione che lo guida sembra voler scrutare attraverso lo sguardo il fondo dell’anima, per evocare ciò che sta dietro l’apparenza. In questa direzione si muove quella serie di visioni che Kandinsky chiamò «sguardi» e che mira a ricreare una sol., ta di delirio musicale con colori e forme. «Lo sguardo rosso» del maggio 1910 ne è l’esempio piú caratteristico: un volto triangolare, sfigurato nei contorni e quasi inghiottito da una lava giallastra, esibisce impudicamente occhi allucinati, vuoti, cerchiati di macchie rosse, come di sangue fresco: una rappresentazione onirica dello sfacelo, della malattia dell’anima e della morte, e nello stesso tempo quasi un sudario della passione. Cosi anche il volto di Mahler, ritratto in quello stesso 1910, perde ogni connotato realistico per rivelare un ghigno sardonico, quasi da maschera dell’orrore: l’azzurro delle pupille è rovesciato fuori dalle orbite, gli occhi sono neri e semichiusi, e una grottesca parrucca sormonta la testa calva, quasi un teschio, come a profanare l’immagine sacra dell’aureola: una visione che sembra urlare al mondo l’incompresa grandezza dell’amico. Qualcosa di assai diverso dalla rancorosa violenza con cui Schönberg dipinge le caricature dei suoi nemici: i critici, visti come ridicoli clown, senza neppure una luce o un barlume di coscienza, i mecenati nella loro pomposa sicurezza, gli esecutori, saltimbanchi della musica, i potenti. Anche i bambini e i ragazzi sembrano aver perduto l’innocenza e la speranza nella vita, e vagare sulla superficie del quadro come riflessi alla deriva.
E poi vengono i paesaggi, i quadri in esterno. Qui Schönberg mitiga le contrapposizioni di colori, le tensioni espressionistiche della forma per inclinare verso una rappresentazione impressionistica di una natura non ostile. Sono quadretti d’occasione talvolta imbarazzanti nella loro ingenuità, momenti di distensione dati dall’assenza dell’uomo, o dalla sospensione della sua presenza nel mondo: qualcosa che proietta un senso di attesa anche nelle dimesse nature morte. Di tutt’altro tono – la parte forse piú interessante della mostra – la raccolta completa dei bozzetti per le scene dei suoi lavori teatrali: perché qui è possibile farsi un’idea di quella compenetrazione fra pittura e musica, fra suono e colore, che Schönberg vagheggiò a lungo. Se come pittore egli rimase un autodidatta e un dilettante, come musicista seppe rifondare dalle fondamenta il linguaggio e la tecnica superando lo stadio delle intenzioni. Non è una differenza di poco conto, che confina ineluttabilmente la sua opera pittorica fra i documenti privati di una grande, aspra personalità.
da “”Il Giornale””