Un saggio di Roberto Leydi sulla musica etnica e della tradizione popolare
L’ argomento del secondo capitolo stabilito dai programmi ministeriali per il corso di storia della musica nei conservatori fu formulato, e lo è tuttora, nel modo seguente: «La musica dei selvaggi e dei primi popoli storici». Il pensiero corre irresistibilmente a quella gustosissima scena del film I due nemici nella quale Alberto Sordi, sorpreso nel deserto etiopico da un gruppo di abissini, trasalisce e sbotta: «Voi chi siete? Siete selvaggi?». Naturalmente il bravo insegnante di storia della musica si premurerà di spiegare ai ragazzi che quella dizione, piú che razzista, è superata dai fatti, che va quantomeno corretta in «popoli primitivi» o in «popoli extra-europei», e che esiste tutta una branca della ricerca scientifica che se ne occupa in modo capillare e serio: l’etnomusicologia.
L’altra musica, la chiama polemicamente Roberto Leydi nel titolo del suo libro dedicato all’argomento: ossia «come abbiamo incontrato e creduto di conoscere le musiche delle tradizioni popolari ed etniche». Per fortuna Leydi esaurisce le sue battute un tantino facili sulla «diversità» (sono i «bianchi» a essere «gli altri», viva i «vu’ cumprà» e abbasso i «presuntuosi cittadini comunitari», e cosí via virgolettando) nella breve premessa: la sua trattazione della storia e dell’attualità dell’etnomusicologia prende poi un andamento piú pacato e professionale, anche se sempre «di parte», e riesce anche utile per ripercorrere le tappe nel corso delle quali questa disciplina ha definito i suoi scopi, le sue metodologie, i suoi campi di ricerca e la sua collocazione rispetto alla musicologia da un lato (i «due nemici», per riprendere lo spunto iniziale), all’antropologia e all’etnologia dall’altro.
Eppure, l’impressione che siano proprio gli etnomusicologi, almeno quelli italiani, a mantenere erette le barricate e gli steccati, rimane. L’arrocco è evidente soprattutto nel capitolo su «musica colta e musica popolare», dove si tratta della fondamentale indefinibilità oltre le apparenze del termine popolare, o meglio dei suoi molteplici significati. Leydi combatte duramente quella distinzione che, identificando la musica colta con quella scritta e la musica popolare con la tradizione orale, sottintende che la musica non scritta sia espressione di strati inferiori di cultura: anche la tradizione scritta, egli scrive, ha la sua tradizione orale. Del che, per la verità, nessuno dubitava. Ma di qui a vedere nella pratica della musica popolare «sempre integralmente una manifestazione contemporanea […], un processo effettivamente culturale (e quindi storico) ancor piú della pratica musicale colta», il passo è lungo e non riguarda piú fatti obbiettivi, ma scelte di campo.
Scienza relativamente giovane, l’etnomusicologia ha avuto il merito di mettere a punto progressivamente non soltanto í suoi strumenti di indagine ma anche gli scopi della sua ricerca. Lo studio della musica dei popoli extra-europei è un settore a parte, in quanto presuppone la ricostruzione di fenomeni non solo musicali (scale, ritmi, melodie, generi verbali e linguistici) ma anche sociali e culturali che si sono sviluppati secondo coordinate diverse da quelle della nostra tradizione occidentale. Leydi non manca di sottolineare che lo studio della musica tribale e orientale ha aiutato anche la comprensione delle prime fasi dello svolgimento della nostra civiltà. Il problema nasce nel momento in cui si procede alla comparazione di fenomeni diversi, e si cerca di stabilire dei collegamenti. Neppure il fonografo inventato nel 1877 da Edison, che pure ha consentito le cosiddette «indagini sul campo», la raccolta e la catalogazione di un patrimonio enorme di espressioni musicali, ha garantito secondo Leydi una corretta applicazione del metodo: al grido di «viva il fonografo, ma abbasso i folkloristi», l’autore afferma che proprio la possibilità di lavorare su dati apparentemente certi e fissati fini per far apparire, per esempio ai seguaci della musicologia comparata ortodossa, «la realtà del folklore non soltanto troppo vicina, ma soprattutto un cascame della musica colta, una manifestazione solo eccezionalmente significante in quel progetto rigidamente comparatistico che aveva al cuo centro, nonostante tutto, la grande musica dell’età tonale e armonica». Insomma, da qualunque punto la si raddrizzi, la barca fa acqua.
Termini come popolare e colto, esotico e primitivo, arcaico e moderno, si presentano cosí strettamente intrecciati di contraddizioni e di rimandi da lasciarsi difficilmente districare in un unico bandolo. Neppure l’etnomusicologia come sìstema vi riesce: proprio perché è un insieme di sistemi storicamente vivi. Il vantaggio è che noi oggi lo sappiamo, e possiamo comportarci di conseguenza.
Roberto Leydi, «L’altra musica. Etnomusicologia», Giunti Ricordi, pp. 336, lire 28.000
da “”Il Giornale””