Pompei – «Dio mio, che musica nervosa! È proprio come se tanti scarafaggi ti scorrazzassero nei pantaloni». Il padre di Richard Strauss, famoso cornista dell’orchestra di Monaco, non era un amico della musica moderna, neppure di quella del figlio. Ma questo giudizio sulla Salomè, sussurrato quasi con disperazione dopo una rapida lettura al pianoforte, fu condiviso da molti quando l’opera in un atto andò in scena per la prima volta a Dresda nel 1905: e Strauss stesso probabilmente lo comprendeva. Neppure lui poteva forse immaginare il successo che le sarebbe toccato; tanto da portersi costruire, con i soli proventi di quest’opera, la villa di Garmisch in cui avrebbe trascorso gran parte della sua lunghissima vita.
Retrospettivamente, più di tutto gli piaceva ricordare con una certa ironia il giudizio che l’Imperatore della Germania, Guglielmo II, aveva dato a caldo: «Mi dispiace che Strauss abbia composto questa Salomè; mi è molto simpatico, ma con questa si farà un danno terribile».
Per quanto nella esasperata concentrazione di Salomè Strauss abbia raggiunto i limiti estremi del linguaggio teatrale e della tragedia moderna, addirittura superando le tensioni e il clima dell’espressionismo nella spaventosa inquietudine dell’armonia, nella ricchezza psicologica dell’orchestrazione e nella capacità di tradurre in musica le più profonde e oscure ossessioni dell’animo umano, oggi quest’opera ci appare come un classico.
Non che abbia perduto qualcosa della sua originalità e della sua straordinaria forza espressiva: ma tutti i suo caratteri, anche quelli più scopertamente ardenti e perversi, sono realizzati dalla musica con un senso delle proporzioni e dell’equilibrio drammatico così perfetto da racchiudere tutti gli attributi classici della tragedia antica. La catarsi che vi si compie nella scena finale è di segno negativo ma funziona esattamente come una trasfigurazione e una sublimazione del dramma, che lascia purificati, e ritrova da ultimo compostezza e dignità.
Nelle rovine del Teatro Grande di Pompei, per le Panatenee, Salomè ha avuto una bellissima esecuzione musicale per merito soprattutto dell’orchestra di Stato Bavarese, ospite quasi fisso di questo festival, e del direttore Erich Leinsdorf, da moltissimi anni assente in Italia.
A quasi ottant’anni Leinsdorf è uno dei pochi superstiti di una tradizione interpretativa che ha radici antiche, oggi forse un po’ fuori moda ma intatta nel suo fascino. Con estrema parsimonia di gesti, e tuttavia capace di dominare ogni singola sfumatura dell’insieme, Leinsdorf ha fatto di questa partitura anzitutto un modello di eleganza e di misura, privilegiando la continuità del discorso orchestrale, senza eccessi ed esasperazioni di contrasti ma con una chiara visione del suo sviluppo anche in senso teatrale. Fino a che punto una lettura cordiale e sensibile possa diventare anche un fatto interpretativo interessante, Leinsdorf lo ha dimostrato dall’alto della sua esperienza e della sua consuetudine con la grande musica. Facendo anche dimenticare certe inadeguatezze della compagnia di canto, soprattutto nei due protagonisti, Josephine Barstow (Salomè) e Siegmund Nimsgern (Jochanaan), ed esaltando invece la classe non offuscata dagli anni di veterani come Leonie Rysanel (Herodias) e Hermann Winkler (Herodes). Buoni tutti i comprimari, provenienti da Monaco, e suggestiva la cornice teatrale, adatta ad esprimere in una rappresentazione semi-concertistica la «massima semplicità e nobiltà di gesti» che Strauss stesso non si stancò mai di richiedere ai suoi esecutori.
da “”Il Giornale””