Duecento anni fa nasceva uno dei compositori che più fecero discutere nell’ottocento
Il 5 settembre di duecento anni fa, esattamente tre mesi prima che a Vienna morisse Mozart, nasceva a Tasdorf, Berlino, Jakob Liebmann Beer, il futuro Giacomo Meyerbeer: uno dei compositori che più contarono, direttamente o di riflesso, nella storia dell’opera dell’Ottocento. Tanto il dramma musicale wagneriano quanto l’evoluzione del melodramma italiano, dell’opera lirica francese e di quella nazionale tedesca ebbero in Meyerbeer un punto di riferimento con cui necessariamente confrontarsi: non soltanto quale massimo rappresentante di un genere, il grand-opéra, che da Parigi si impose come il modello dell’opera internazionale e cosmopolita, tenendo la scena per oltre un trentennio, fra il 1831 e il 1865; ma anche come esponente assai discusso di una drammaturgia teatrale che, dopo aver toccato con lui i vertici dello splendore spettacolare e musicale, a poco a poco decadde per non risorgere mai più.
Ci troviamo di fronte al caso abbastanza singolare di un autore la cui presenza storica, riconosciuta anche dai suoi avversari, sembra risultare più importante delle qualità artistiche che ne determinarono, oltre al successo, l’identità. Ciò che la produzione di Meyerbeer significa di per se stessa non è bastato a garantirne la sopravvivenza nei repertori dei teatri: da noi, per trovare una sua opera in cartellone bisogna tornare indietro di almeno vent’anni. E la scarsa attenzione riservata alla scadenza dell’anniversario, di solito occasione per riproposte di questo tipo, offre una ulteriore riprova. Certo, per spiegare questo stato di cose si può far ricorso a due ordini di motivi pratici, entrambi però non decisivi. Il primo è connesso all’impegno eccezionale che la rappresentazione delle sue opere, di una grandiosità e di un’opulenza insite nella concezione teatrale stessa, richiede sotto l’aspetto scenografico e spettacolare. Il secondo si collega invece allo stile vocale: molti ruoli furono tagliati su misura per cantanti a quel tempo addirittura mitici come la Falcon e la Lind, Nourrit e Levasseur, e finirono per contrassegnare uno stile di canto virtuosisticamente eccelso, ma limitato sotto il profilo drammatico e in aperto contrasto con lo sviluppo successivo della vocalità.
Jakob Liebmann Beer proveniva da una ricca famiglia di banchieri ebrei berlinesi; ciò gli permise di crescere in un ambiente di alto livello intellettuale, senza preoccupazioni finanziarie. Divenne Giacomo Meyerbeer ancor prima che la sua carriera si fosse chiaramente delineata. Fu per volere del nonno materno – che a questa condizione lo lasciò erede del suo cospicuo patrimonio – che cambiò il cognome anteponendovi il Meyer; quanto a Giacomo, l’italianizzazione del nome fu un omaggio e forse un’ambiziosa autoiscrizione a quella tradizione teatrale da cui si sentiva prepotentemente attratto e che stava per abbracciare. Forte di una preparazione musicale solida, estesa a tutti i campi dopo un esordio da enfant prodige, animato da un interesse per le esperienze cosmopolite che l’agiatezza economica rendeva più attuabili, Meyerbeer cominciò a viaggiare e a comporre, assimilando aristocraticamente la passione per il teatro e appropriandosi degli stili con i quali via via veniva in contatto. Fu però a Parigi agli inizi degli anni Trenta che l’incontro con Eugène Scribe, nato come lui nel 1791, librettista che avrebbe influenzato il gusto melodrammatico di tutta un’epoca, decise del suo futuro. Parigi viveva in quegli anni del culto di Rossini, e Rossini era anche il beniamino di Meyerbeer; dopo il Guillaume Tell, andato in scena nel 1828, fu lui a raccoglierne l’eredità, e a diventare in un certo senso ciò che Rossini, ritirandosi, non voleva più essere: l’autore alla moda di un genere, grand-opéra, che proprio allora, grazie al Tell, poneva le basi del suo trionfo anche commerciale.
Con Robert le Diable (1831), opera costellata di mirabolanti intrecci romanzeschi e di fantasmagoriche soluzioni scenografiche, Meyerbeer colse il suo primo, grande successo; rinverdendolo cinque anni dopo (i suoi ritmi di lavoro rimasero sempre lentissimi, proverbiali la durata e l’acribia delle prove per arrivare alla versione definitiva) con il dramma storico e patriottico Les Huguenots, il suo capolavoro. Una lunga parentesi durante la quale egli occupò il posto di Generalmusikdirektor alla Corte di Berlino, come successore di Spontini, sembrò avvicinarlo alla causa, a cui molti già lo avevano iscritto d’ufficio, dell’opera nazionale romantica. Ma benché molto organizzasse per favorirne la diffusione (Wagner stesso gli dovette molto in questo periodo), la sua vena creativa si riaccese solo quando, nel 1849, rientrò sulle scene parigine con Le prophète: riannodando i legami, che ora non si sarebbero più sciolti, con quel mondo e attirandosi, non solo per reazione a un successo di nuovo immediato e clamoroso, le scomuniche dei suoi sostenitori di un tempo, Schumann in testa; il quale quest’opera recensì nel modo più terribilmente conciso, con una croce mortuaria.
I titoli a cui abbiamo fatto cenno (e a questi va aggiunta almeno L’Africaine, che costò a Meyerbeer quasi venticinque anni di lavoro e fu rappresentata solo dopo la sua morte, avvenuta a Parigi il 2 maggio 1864) sono le vette di una produzione. che mantiene, anche all’interno dell’eclettismo proprio del genere, tratti individuali riconoscibili. Wagner ne bollò il carattere con una formula divenuta celebre: «effetti senza causa». Questa definizione può servire a precisarne lo stile, anche se è evidentemente parziale.
Il principio fondamentale del teatro di Meyerbeer non è la continuità drammatica perseguita da Wagner con la fusione di musica poesia e azione, bensì, al contrario, l’evidenza e l’accumulazione dei contrasti, la contrapposizione immediata di eventi collettivi e di conflitti passionali. Non il mito, ma la storia è la sua cornice: in una prospettiva non drammatica, ma epica. Ogni personaggio vive per così dire il dramma in una duplice dimensione: è portatore di valori individuali o ideali, e nello stesso tempo rimane isolato in uno sfondo che lo trascende. Questo assunto è realizzato per mezzo di un’accumulazione di situazioni che non mira alla coerenza drammatica, ma anzi alla successione intermittente di pieni e di vuoti; anche servendosi di convenzioni spettacolari che amplificano nei pezzi d’insieme la forza dei contrasti, per riflettersi da ultimo nei grandi cori e nelle scene di balletto. Questa accumulazione, per la quale è necessaria la vastità di tempi e di spazi di una grande opera in cinque atti, si arresta nel momento in cui l’attrito è portato, per crescita interna, al limite estremo, e configura una sorta di blocco finale che non conosce trasfigurazione o catarsi: la musica tocca quel limite, e lì si ferma. E nella mancanza dello scioglimento finale, del giudizio morale o della presa di posizione di fronte agli eventi, sta la vera natura del teatro di Meyerbeer, in una prospettiva eminentemente statica e sospensiva.
Se da un lato questo teatro rispecchiava con il suo moderatismo lo spirito borghese e imprenditoriale della Parigi dell’epoca di Luigi Filippo, d’altro lato la sua drammaturgia e la sua realizzazione musicale erano costituzionalmente estranee alle vie maestre che l’opera avrebbe percorso in seguito, non solo con Wagner. E per quanto il suo vero e proprio carattere vada visto storicamente in un progressivo avanzamento delle forme e del linguaggio operistico che esaurisce l’ultimo tratto della sua espansione secondo le vecchie norme, essenzialmente esso costituisce una celebrazione del teatro musicale secondo le sue proprie, originarie regole: grandiosa accumulazione di effetti, esaltazione della vocalità, immersione completa nell’autonomia rappresentativa di situazioni portate all’eccesso e giustificate non in quanto dramma, ma in quanto musica. Ed è su questa base che il teatro di Meyerbeer non ha soltanto un’importanza storica, ma un significato universale che dovrebbe riguardare ogni epoca.
da “”Il Giornale””