In «Un ragazzino all’Augusteo» la curiosità e le idiosincrosie di D’Amico
Di Fedele D’Amico, a poco più di un anno dalla scomparsa, esce una raccolta di scritti (ventuno) scelti e disposti da lui stesso nell’ultimo tratto della sua vita. Sono studi e articoli per lo più legati a casi della musica (giusto per riprendere il titolo di un’altra famosa sua raccolta, di cui questa è l’ideale prolungamento) che a D’Amico stavano particolarmente a cuore e che rispecchiano il suo pensiero musicale, oltre che la sua attività di critico. L’ordine in cui ci vengono presentati, in progressione cronologica non per apparizione (il periodo va dal 1962 all’ultimo anno di lavoro) ma per temi e autori (si comincia con Mozart e si termina con una serie di saggi sulla musica contemporanea), definisce in modo organico il quadro delle sue predilezioni e delle sue idiosicrasie (Berlioz e Brahms, ma non Wagner), e consente di ripercorrere in una sorta di biografia critica l’arco della storia della musica e del costume, in alcuni dei suoi momenti salienti o più rappresentativi.
D’Amico aveva una curiosità insaziabile per le cose della musica, che frequentava e conosceva in ogni loro manifestazione come pochi altri, ma era altresì guidato da saldi principi di giudizio; le cui radici affondavano, come scrive Franco Serpa nella premessa, «in una convinzione etica primaria di fedeltà al concetto di umanesimo integrale». Ciò lo portava a respingere tutto quanto avesse le apparenze dell’inautentico, del sostitutivo, del mistificatorio, dell’irrazionale, e contraddicesse, in termini estetici, l’ideale positivo e luminoso della comunicazione, dell’espressione e della creazione. Anche in un autore che come compositore non amava, ma al quale dedicò molti anni di paziente lavoro per ricostruire l’integrale dagli scritti, ossia in Ferruccio Busoni, vedeva soprattutto l’ansia di superare le contraddizioni della modernità, il rovello dell’utopia e della classicità; e nel titolo che volle dare a quella raccolta, Lo sguardo lieto, e ancor più nella prefazione che scrisse animato quasi da sacro furore, qui riproposta, c’era molto di autobiografico. L’idea che l’arte possa esistere in quanto negazione di questi valori semplicemente lo faceva inorridire: ed è su questo bersaglio che si appuntano gli strali ferocemente polemici di veri e propri saggi-manifesto quali l’impagabile Da Schönberg al nichelino, La polemica su Luigi Nono, La musica e “l’impegno”.
Giacché D’Amico insisteva non su ciò che era acclarato (per esempio Mozart, o Rossini, di cui pure dà decisive puntualizzazioni proprio su aspetti meno considerati o accettati) ma su quei nodi in cui vedeva confusione, turbamento, incertezza, se non malafede: esemplare la sua rettifica di molti luoghi comuni sulla musica sotto il fascismo. E lo faceva dispiegando una bravura dialettica e una fermezza di opinioni capaci di tener testa a qualsiasi avversario, con virtuosismo inimitabile. La logica e l’acume delle sue deduzioni facevano aggio su tutto il resto. Anche sulla sostanza del contendere. Stabilito un punto di partenza, D’Amico era inflessibile nel portare il suo ragionamento alle estreme conseguenze: ossia al punto in cui voleva lui, a una verità assoluta e incontestabile. Non sempre, però, quel punto di partenza era altrettanto provato, e quindi indiscutibile. E qui, nel suo apriorismo, poteva anche stare il suo limite.
La testimonianza più chiara in questo senso è data da tre scritti, particolarmente preziosi anche perché finora mai pubblicati in italiano: il primo, Sull’«Egmont» di Goethe, addirittura inedito; gli altri due, Shakespeare pierre de touche de Verdi e La série est autre chose, originariamente in francese, rispettivamente de11987 e 1988. Sull’«Egmont» di Goethe è il testo di una lettera a Luchino Visconti del 10 dicembre 1967 in cui D’Amico, autore della traduzione, fa letteralmente a pezzi la regia dello spettacolo andato in scena quell’anno al Maggio Musicale Fiorentino. Con ragioni di fondo granitiche, ma non esattamente confrontate con la visione di Visconti: più che criticarne la regia, gli insegna che cosa sia 1′Egmont di Goethe. Ne risulta una lezione di alta scuola, basata su presupposti del tutto diversi da quelli realizzati da Visconti, e naturalmente altrettando discutibili.
La tenacia e l’intransigenza nel difendere le proprie idee erano tratti consueti in D’Amico; la bocciatura dell’ultimo Verdi, con l’argomentazione di una senilità aggravata dal contatto tardo con Shakespeare, altra idiosincrasia di cui andava fiero: per lui Verdi era quello risorgimentale e romantico della giovinezza e della prima maturità. Il suo merito in questi scritti sta tutto nel far riflettere su tesi che non è necessario accettare in toto per ammirare, dello svolgimento, la lucidità e il rigore. Significativo il paradosso sulla serie (s’intende qui il sistema compositivo introdotto da Schönberg), che per D’Amico semplicemente non esiste: la serie è un’altra cosa, appunto, e tutti coloro che hanno pensato diversamente si sbagliano. Qui i ragionamenti di D’Amico toccano il vertice di una capziosità geniale.
Anche D’Amico talvolta mentiva sapendo di mentire.
Erano provocazioni, le sue, che avevano lo scopo di aiutare a capire, di mettere ironicamente alla prova, e solo in casi sporadici, là dove l’opposizione diventava di principio a una tendenza, cercar di persuadere. Un suo motto che ricorre anche in queste pagine era che «non c’è deformazione della verità senza un fondo di verità»: detto senza orgoglio né enfasi, quasi sottovoce. Ma con determinazione.
L’ultimo scritto del volume, che al volume dà anche il titolo, Un ragazzino all’Augusteo, è una toccante rievocazione, letterariamente splendida, dei primi contatti con la musica, delle esperienze magiche con i suoni e della nascita di una passione. Una rievocazione serena, punteggiata di episodi divertenti e di ricordi anche malinconici, ma sempre animata dalla gratitudine per aver potuto affrontare le cose e i casi della vita con animo lieto.
Fedele D’Amico, Un ragazzino all’Augusteo», Einaudl, pp. 250, lire 30.000
da “”Il Giornale””