Monaco – La scelta di un’opera nuova, appositamente commissionata per l’apertura del Festival, si spiega probabilmente col fatto che all’Opera di Monaco nei vent’anni della gestione Sawallisch il grande repertorio che conta è stato esplorato in ogni sua piega. Qui tutto Wagner, tutto Strauss e Mozart sono di casa; per arricchire la vetrina occorrevano dunque nuovi spazi, anche a rischio di confronti impegnativi. Nei saloni del Teatro Nazionale una mostra documenta le «prime» assolute avvenute a Monaco dal dopoguerra a oggi e ricorda che una certa vocazione in tal senso questo teatro l’ha sempre avuta; anche se il fantasma di Capriccio, ultimo lavoro di Strauss, sta ad indicare che, forse, dopo 350 anni di storia, il congedo dall’opera è stato definitivamente consumato.
Ma bisogna guardare avanti. E questa volta, almeno sulla carta, la scelta mirata di Krzysztof Penderecki non faceva una piega. Penderecki è uno dei compositori più seri e stimabili della nostra epoca, anche se le sue prove migliori finora esorbitavano dal teatro; al quale fra l’altro è giunto relativamente tardi, via via esaurendo una specifica vena creativa. La sua prima opera, I diavoli di Loudun, da Huxley, è del 1969 e rimane la più caratteristica di un’idea di teatro nel quale la musica riempia la scena lasciando largo spazio alla recitazione. Le due successive, Paradise Lost da Milton (1978) e Die schwarze Maske da Hauptmann (1986), non sono già più propriamente opere ma spettacoli accompagnati da musica, che tendono al rito della «sacra rappresentazione» o al «mistero» medioevale rivisitato oratorialmente: campi nei quali, col suo spiritualismo, Penderecki è particolarmente versato.
Con Ubu Rei, rappresentata ora a Monaco in prima mondiale, Penderecki ha cambiato strada e lanciato una sfida. Anzitutto nei confronti del testo di Alfred Jarry, che fin dalla sua apparizione nel 1896 fece scandalo diventando subito un mito del teatro delle avanguardie. Di questo testo terribile, quanto datato, Penderecki non ha considerato tanto le fratture linguistiche, che ne costituirono la vera novità, quanto le potenzialità teatrali e il messaggio: la teatralità di situazioni spinte all’eccesso, nelle quali la meccanica essenzialità del teatro di marionette si fonde con gli archetipi dell’assurdo e del surreale, e il messaggio dell’uomo-maschera, trionfante con le sue meschinità, il suo cinismo e la sua vigliaccheria, ma anche con la sua sfrenata volontà di potenza, su un mondo privato di valori e di ideali.
Difficile però mettere in musica questo testo. In primo luogo perché la frammentazione del linguaggio, i fantasiosi neologismi e le deformazioni lessicali (a partire dal famoso «Merdre», qui diventato «Schreisse», che apre la pièce) non sono passibili di corrispettivi od equivalenti musicali. Penderecki ha voluto scrivere un’«opera buffa» (come annuncia, in italiano, il sottotitolo) abolendo le regole del gioco senza stabilire però le basi per una parodia: a meno di non voler considerare tali le fiorite cadenze vocali e strumentali, le marcette, le fanfare e gli insiemi strutturati su iterazioni di noduli buffi, alla Rossini, di cui la partitura è infarcita.
Piuttosto, invece, ha individuato in una musica funzionale un corrispettivo sonoro del disordine, della mistificazione, della aberrazione: presentandolo come un gioco, un divertimento, una satira. Sotto il profilo linguistico un aggancio fra testo e musica forse c’è, e potrebbe essere questo: lo stato della musica contemporanea si pub esprimere solo rilevandone il caos, il grottesco, l’improprio. Ma se Jarry rivolgeva la sua polemica verso gli statuti del teatro tradizionale, storpiandoli sarcasticamente, Penderecki cita e mette in parodia indifferentemente il corno inglese del Tristano, la scena dell’incoronazione del Boris, il finale del Crepuscolo degli dei, associandoli dall’esterno, meccanicamente a luoghi e situazioni appena evocati dalla commedia.
Ne risulta una rappresentazione in cui la musica è di supporto e tutto è sbilanciato sul versante scenico. Di per sé le scene coloratissime e i costumi fantasiosi di Roland Topor, impegnato in una sorta di grandiosa autocelebrazione, erano adattissimi a ricreare il clima allucinato e fittizio del gran Carnevale di Jarry, con effetti talvolta esilaranti e sempre di forte impatto visivo. Ma August Everding, che non è mai stato un regista profondo e raffinato, per esaltare il suo grossolano narcisismo accumulava trovate e trovatine tendenti al ridicolo più che al riso. Se lo scopo era quello di mostrare il grottesco dell’opera, l’insensatezza di un canto vuoto o sfigurato o comunque impotente, una volta azzerati i punti di riferimento, ad illuminare le passioni, ebbene, il risultato si è visto.
Di alta qualità invece la realizzazione musicale, che aveva in Michael Boder un concertatore preciso e sensibile e nella compagnia di canto, dove spiccavano Robert Tear, Doris Soffel, Hermann Becht e Pamela Chburn, interpreti bravissimi ed adeguati. Salvo annoiarsi, il pubblico ha riso e partecipato; ma non sapremo dire quanto si divertisse e se, e quanto, ragionasse su ciò che stava vedendo e ascoltando. Alla fine salomonico pareggio di applausi e fischi per Penderecki, e giuste, vistose disapprovazioni per Everding.
«Ubu Rex» di Penderecki, al Festival di Monaco (repliche 119 e 12 luglio)
da “”Il Giornale””