Roma – Con un gesto bellissimo il Presidente della Repubblica Federale di Germania in visita di Stato in Italia ha offerto al nostro Presidente della Repubblica un concerto nella sala dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia, invitando personalmente un’orchestra, la Filarmonica di Monaco, e un direttore, Sergiu Celibidache, che purtroppo non si esibiscono frequentemente da noi: tanto maggiore era perciò la gioia di riascoltarli, e parimenti grande il rammarico che questa rara fortuna toccasse solo a un ristretto numero di invitati, peraltro selezionati con cura e senza alcuna concessione alla mondanità.
Il sodalizio tra Celibidache, che compirà ottant’anni l’anno prossimo, e i Filarmonici monacensi, che nel ’93 festeggeranno il centenario della loro fondazione, dura da ormai dodici anni ed uno degli esempi più luminosi di dedizione artistica che la vita musicale del nostro tempo presenti. A quest’orchestra, l’unica che ancora diriga, il grande Maestro ha imposto una disciplina severa: del resto, le sue scelte sono sempre state drastiche per salvaguardare non soltanto la qualità dei suoi strumentisti ma anche un atteggiamento non volgare nei confronti della musica, che si rispecchia per esempio nel rifiuto di qualsiasi mercificazione discografica — fatto più unico che raro oggi — e nella costante ricerca di scavo e approfondimento interpretativo.
L’ora di musica offerta agli ospiti illustri comprendeva due delle interpretazioni più universalmente famose di Celibidache: la Sinfonia della Forza del destino di Verdi e la Seconda Sinfonia di Brahms. Di questo Verdi pugnace Celibidache dà una versione come sempre personalissima, fortemente sbalzata nei temi e nei cambiamenti di tempo, non convenzionalmente drammatica o enfatica ma tuttavia tesa a sottolineare i contrasti, gli slanci e gli improvvisi ripiegamenti, levigando i timbri e temperando gli scatti ritmici: le sonorità più battagliere vengono così smorzate e il canto legato in frasi lunghissime, quasi estenuate.
Ciò che ne risulta da ultimo è un pezzo di musica che mette i brividi. Quanto a Brahms, nessuno come Celibidache conosce il vero spirito della malinconia e delle stupefatte sospensioni che sembrano quasi voler arrestare il corso del tempo e della musica, ed è quindi in grado di recuperare tutta una altissima tradizione interpretativa passandola al vaglio della sensibilità e della poesia. Il suo è però anche un Brahms grandioso, in una mescolanza di affetti certo inimitabile e irripetibile da altri esecutori, di fascino supremo: dove anche la proverbiale lentezza dei tempi (ma non nel tumultuoso Finale) serve solo far risaltare la logica e la chiarezza della partitura in modo emozionante.
Ma per capire che razza di musicista sia Celibidache, e come tutto ciò che egli tocchi diventi oro, bastava l’ascolto degli inni nazionali all’inizio; perché se in quello tedesco era più facile mettere in luce con soave accompagnamento tutta la bellezza del tema imperiale haydniano, dell’inno di Mameli Celibidache ha fatto un capolavoro, attaccandolo con studiata lentezza e tenendolo tutto sottovoce, con prodigioso controcanto di violoncelli e fagotti e garruli tintinni del triangolo. Semplicemente geniale.
da “”Il Giornale””