A Bologna Festival l’opera di Marais
Bologna – William Christie e il suo gruppo vocale e strumentale Les Arts Florissants si fecero conoscere in Italia cinque anni fa, alle manifestazioni di Firenze capitale europea della cultura, con 1’Atys di Lully. Per molti di quelli che l’ascoltarono fu amore a prima vista.
Non solo per il repertorio, bellissimo e poco frequentato, che Christie presentava – l’opera barocca francese -, ma anche per il modo in cui lo faceva: mettendo gli scrupoli filologici al servizio della fantasia e servendosi degli strumenti cosiddetti originali con rigogliosa libertà espressiva. Da allora, su queste basi, Christie ha impiantato una piccola industria, trovando in primo luogo un fortunato sbocco discografico. In breve, è diventato un punto di riferimento fra i cultori della musica antica. Ma strada facendo ha perso molto della sua primitiva freschezza, e della sua originalità, mostrando i limiti, forse costituzionali, della sua impresa.
E di questa involuzione si è avuta conferma netta a «Bologna Festival», dove Christie e i suoi hanno portato, in prima ripresa moderna, 1’Alcyone di Marais, un momento non secondario nella storia dell’opera francese tra Sei e Settecento, tra Lully l’inventore e Rameau il riformatore.
Della sua epoca, quella di Luigi XIV, Marin Marais (1656-1728) fu un rappresentante autorevole e riconosciuto. La sua opera sul mito di Alcione, andata in scena per la prima volta all’Académie Royale nel 1706, intreccia allegorie e simboli dell’antichità con temi e convenzioni del presente: morali e didascalici, eroici e celebrativi. Pur appartenendo alla tradizione della tragédie-lyrique mostra chiari fermenti di rinnovamento già nel taglio del testo, di Antoine de la Motte: queste innovazioni riguardano soprattutto il ruolo dell’orchestra, che da sfondo indistinto di supporto al canto tende a venire in primo piano e a porsi come protagonista nei momenti culminanti dell’azione, prima assorbendone e poi sciogliendone le tensioni.
Verso la fine si trova una «tempesta» abbastanza originale, che a noi oggi sembra il prototipo di tante che riempiranno le pagine dei melodrammi ma che a suo tempo impressionò e divenne subito giustamente celebre: tanto da essere ripresa dallo stesso Lully e da altri.
Meno a suo agio nelle pagine puramente vocali, che di rado superano il decoro e la retorica del genere, Marais dà prova di un talento teatrale non ordinario negli effetti strumentali e non sfigura neppure di fronte ai migliori esempi di descrittivismo e di grandiosità evocativa dei compositori francesi suoi contemporanei.
Solo che tutto questo si poteva soltanto intuire, e non sempre, da una esecuzione grigia e spenta, nella quale la presenza di Christie era quasi irriconoscibile. Può aver pesato negativamente la mancanza dell’apparato scenico, che non solo nelle danze e nei cori, ma anche negli interminabili recitativi e nei pezzi d’insieme, qui alquanto sviluppati, ha un’importanza più che mai decisiva nel definire un particolare clima teatrale e musicale. E la sala stessa del Palazzo dei congressi, non certo adatta alla musica, può aver ulteriormente appiattito le sonorità, e reso più pigolanti e asfittici del solito i delicati strumenti d’epoca.
Ma non dipendeva invece da circostanze occasionali la generale, imbarazzante modestia della compagnia di canto, non solo vocalmente ma anche stilisticamente incerta. E dire che si trattava di specialisti, mentre anche l’opera barocca ha bisogno semplicemente di buoni cantanti.
Così la noia si è impadronita presto del pubblico, sempre più spinto alla defezione durante i cinque atti della tragedia. Nei restanti, il rammarico per non aver colto un’occasione che sulla carta sembrava propizia. Peccato per chi ci aveva sperato credendo in Christie.
da “”Il Giornale””