Cent’anni fa nasceva in Ucraina il compositore Sergej Prokofiev
L’autore dell’«Amore delle tre melarance» raccontava che il suo destino si decise nella culla: da lì ascoltava la madre suonare il pianoforte. Interprete precoce fu spinto dal suo eclettismo verso il balletto e l’opera. Il tormentato rapporto con la patria dopo la rivoluzione e l’offensiva del realismo socialista
«Cominciai a sentire musica in casa fin dal giorno in cui nacqui. Quando mi mettevano a letto la sera e il sonno non veniva subito, mi piaceva starmene sdraiato ad ascoltare l’eco delle Sonate di Beethoven, che giungeva nella mia camera dal luogo, lontano diverse stanze, dove mia madre suonava il pianoforte». Esattamente cento anni fa nasceva nel villaggio di Sonzovka, in Ucraina, Sergej Prokofiev, uno dei compositori che più avrebbero contribuito a dare un volto non sfuggente alla musica del nostro secolo. Fin da quel giorno la sua vocazione alla musica fu decisa; e se a deciderla fu l’eco lontana di un pianoforte, come lui stesso racconta nella sua autobiografia, per realizzarla Prokofiev avrebbe impiegato tutte le risorse non solo del suo talento naturale ma anche di una caparbia volontà artistica: fino a far diventare quell’eco un suono robusto e personale.
«A nove anni suonava Mozart e le Sonate più facili di Beethoven. Non aveva mai soggezione di suonare e improvvisare in presenza di altri. Ma fin da piccolo non sopportava che la sua musica fosse presa alla leggera: se l’avevano fatto suonare dovevano ascoltarlo. Altrimenti smetteva di suonare»: così ricorda sua madre. La successiva formazione di Prokofiev avvenne intrecciando i contatti con le forze più vive della cultura russa dell’inizio del secolo, che subito lo elessero a suo protetto, con severi studi accademici, di composizione, pianoforte e direzione d’orchestra al Conservatorio di Pietroburgo. Qui sostenne l’esame di ammissione nell’estate 1904, presentando anche un cospicuo numero di proprie composizioni, e fu accettato da una commissione presieduta da Rimskij-Korsakov. Oltre a lui, ebbe maestri di primo piano come Ljadov, la Essipova e Cerepnin. Non furono sempre rapporti facili. Infatuato da Scriabin, decisamente portato verso la musica moderna europea di Reger, Strauss, Debussy (nel 1911 fu il primo esecutore di Schönberg in Russia), Prokofiev si mostrava insofferente non tanto alla tradizione quanto alla mancanza di aperture verso il nuovo: «Sognavo di comporre delle opere, mentre mi volevano insegnare solo delle regole», scriverà di quel tempo. Ma, nonostante queste riserve, non rinnegò mai l’importanza della tecnica nel bagaglio professionale del musicista.
Intanto continuava a produrre, soprattutto per pianoforte, strumento di cui rimase sempre un formidabile virtuoso. Nel 1914 si aggiudicò il primo premio del prestigioso concorso Rubinstein, suonando il suo Primo Concerto per pianoforte. Ma la sua vera natura lo spingeva verso il teatro, verso il balletto e l’opera, il suo sogno fin dall’infanzia. Qui la sua vocazione a mettere in scena il proprio mondo e a liberare la fantasia in immagini si poteva realizzare nel modo più completo. Sono di questo stesso anno i primi contatti con Diaghilev, entu- musica. Ben presto l’incertezsiasmanti e burrascosi insieme. «Cerchi di scrivere una musica che sia soprattutto russa», non si stancava di raccomandargli Diaghilev, mettendolo in guardia contro l’eclettismo: «In arte dovete sapere odiare, altrimenti la vostra perderà ogni carattere originale. Il cannone colpisce lontano perché non spreca il fuoco». Ma come nell’atteggiamento onnivoro del giovane Prokofiev non esisteva contrasto fra tradizione e modernità, così l’indirizzo filo-occidentale non significava tradimento della fedeltà alle radici della propria terra. Prokofiev sapeva cavalcare le avanguardie senza lasciarsi intimorire e guidare dalle ideologie.
Lo scoppio della rivoluzione lo colse a Pietroburgo. La salutò con gioia, ma subito fuggì la città per ritirarsi nella più completa solitudine in campagna. «Gli avvenimenti rivoluzionari che scuotevano la Russia penetravano in me ed esigevano di essere espressi. Non sapevo quale forma avrebbe preso tutto ciò». Il primo frutto fu la Sinfonia classica, un omaggio allo stile di Haydn: sorprendente, forse ma indicativo di un bisogno di chiarezza e di ordine sentito, e non solo da allora, nell’intimo. E’ questo un dato che ritroviamo sempre anche nella musica. Ben presto l’incertezza gli parve troppo pesante e nacque l’idea di emigrare in America. Il commissario per l’istruzione popolare Lunaciarskij, a cui era stato presentato da Gorkij, accordò a Prokofiev il suo assenso con queste parole: «Lei è un rivoluzionario nella musica, noi nella vita; dobbiamo lavorare insieme. Ma se lei desidera andare in America io non la ostacolerò». Il 7 maggio 1918 Prokofiev lasciava la Russia. Vi sarebbe tornato stabilmente solo nel ’33.
In America Prokofiev non trovò l’accoglienza sperata, soprattutto come compositore. Accadeva sovente che pensasse con rabbia inerme alle «magnifiche orchestre americane che non sì interessavano affatto alla mia musica, ai critici che ripetevano fino alla noia le cose ben note e che deridevano grossolanamente le mie innovazioni, ai manager che organizzavano lunghe tournée solo a quei musicisti che accettavano di suonare cinquanta volte di fila un programma composto esclusivamente di cose da tutti ben conosciute». Ai soggiorni in America.si alternarono periodici ritorni in Europa: e fu qui, a Parigi, Londra e Berlino, che si consacrò la sua fama internazionale. In questi anni videro la nascita i suoi capolavori: dall’Amore delle tre melarance all’Angelo di fuoco, dal Terzo Concerto per pianoforte alla Terza Sinfonia, fino ai grandi balletti e ai pezzi per pianoforte e da camera. L’inesauribile spinta a comporre nei generi più diversi era
prima di tutto una necessità interiore, un lavoro a 360 gradi negli orizzonti sempre più tempestosi della musica.
A poco a poco si riannodarono i fili con la patria e incominciò il peso doloroso delle memorie, che dapprincipio guardarono alle vecchie favole dell’infanzia: un’età, come in Pierino e il lupo, rivissuta con occhi né felici né innocenti. Solo nel 1936, con l’inizio dell’offensiva ufficiale del «realismo socialista» in arte, Prokofiev fu costretto a schierarsi. Lo fece dapprima con cautela, affermando per esempio che «la definizione “”formalismo”” si attribuisce talora alle cose che sentite per la prima volta non si capiscono» e che «di fronte alle vaste masse popolari il cui gusto artistico si sta perfezionando con straordinaria rapidità, un compositore commetterebbe un grande sbaglio volendo intenzionalmente semplificare se stesso. Compositori, abbiatelo in mente. Se respingerete queste masse, vi abbandoneranno per volgersi al jazz o alle volgarità». Alla fine dovette cedere; anche se ciò non gli impedì di partecipare con convinta adesione e originalità di linguaggio alle epopee dei film di Eisenstein – AleksandrNevskij e Ivan il Terribile – e di vagheggiare un grande affresco della Russia vecchia e nuova con l’opera Guerra e pace, il suo testamento spirituale.
La grandezza di Prokofiev non sta soltanto nella ricchezza di spunti e prospettive presenti nella sua musica ma nell’averci lasciato del Novecento, delle sue battaglie, un’idea di segno chiaro, positivo e costruttivo. Per lui la musica, comunque si manifestasse, era un modo di reinventare la realtà, accentuando suggestioni e tratti estremi della vita o trasportandoli sul piano del gioco, della caricatura e dell’ironia, per esaltarne deliberatamente la finzione. Il suo eclettismo è uno stile individuale e riconoscibilissimo, un mezzo per dare continuità al passato e riflettere sul presente.
da “”Il Giornale””