Il recital del pianista a Firenze nell’ambito del Maggio Musicale
Firenze – Da quando si è dedicato con profitto alla direzione d’orchestra, Vladimir Ashkenazy ha sensibilmente ridotto la sua attività di pianista. In realtà c’è da credere che non abbia mai smesso di occuparsene. Se lo smalto del virtuoso puro si è un po’ appannato, non è cambiato il modo di suonare, generoso, ricco di comunicativa e di fantasia, mai scontato. Ashkenazy può vantare da sempre una musicalità prorompente, che arriva diritta al pubblico senza mediazioni intellettualistiche e trasmette una specie di euforia, di piacere elettrizzante dell’ascolto anche di fronte a pagine notissime. Il suo repertorio, un tempo estesissimo, tende ora a concentrarsi su pochi accostamenti significativi; come se ad essi venisse affidato il compito di verificare sul pianoforte possibilità sempre nuove e virtualmente sempre nuove interpretazioni. Proprio perché ora lo interessano altre cose, Ashkenazy non si è fermato a ciò che aveva raggiunto in passato: in altri termini, non si è arrestata la sua ricerca, e suonare il pianoforte non è diventato per lui un impegno ripetitivo, una questione di routine fosse pure ad altissimo livello.
Il programma con cui si è presentato al Teatro Comunale per il Maggio Musicale Fiorentino, in collaborazione con gli Amici della Musica, comprendeva nella prima parte due Sonate dell’ultimo Beethoven, la 110 e la 111: opere di cui da qualche tempo si tende a dare una lettura monumentale, eroica (sembra quasi che esse, nella frequenza continua con cui ricorrono nei concerti, abbiano sostituito ciò che un tempo erano l’Appassionata e la Patetica: momenti di passaggio verso nuove esperienze, più che punto di arrivo di una stagione già estrema del pianoforte, astratta e metafisica insieme). Di qui l’accostamento a due cicli di Brahms, quello anch’esso tardo dell’Op. 119 (tre Intermezzi e una Rapsodia) e le Variazioni e fuga sopra un tema di Handel Op. 64, sintesi suprema delle possibilità di combinazione di principi linguistici apparentemente antitetici (lo spirito arcaico del tema nella sua semplicità armonica e metrica rivissuto nello scatenamento di figurazioni sempre più audaci e originali del linguaggio romantico: fino alla fuga conclusiva, che scolpisce l’opera in un possente gesto riassuntivo).
È evidente che il legame fra questi capolavori è dato dall’uso di principi costruttivi e formali analoghi, quali la polifonia, la variazione e la fuga. Sappiamo quanto diversi siano gli esiti a cui questi modelli giungono nei due autori. Ma Ashkenazy, più che a differenziarli, tende a farli convergere verso un unico centro: la libertà dagli schemi in nome di un pensiero musicale che ricrea il linguaggio dalle fondamenta, mirando a un ideale di perfezione classica. Non sono molti i privilegi dell’interprete moderno di fronte all’afasia della produzione contemporanea; ma fra questi vi è senza dubbio la possibilità di riunire Beethoven e Brahms in un unico tratto, come esponenti di un’epoca unitaria della storia della musica, a cui guardare come a un tutto compiuto.
La 110 è allora davvero il punto di partenza. Che Ashkenazy fissa e poi sviluppa in un percorso che va dalla rarefazione degli elementi, da principio resi in forma quasi rapsodica, alla costruzione di solide architetture sonore: come un’idea che prendesse forma e si realizzasse attraverso continue, necessarie divagazioni, fino ad affermarsi nel modo più plastico e definitivo nella quintessenza della fuga. Ma anche compiendo il percorso inverso: dalle fortissime tensioni dello sviluppo polifonico e contrappuntistico del primo tempo della 111 fino alla progressiva trasfigurazione, attraverso le Variazioni, dell’Arietta.
Si giustificava così l’accostamento alla serie dei pezzi elegiaci di Brahms: dove l’Intermezzo non è né un pezzo di carattere né una pausa o una preparazione, ma un condensato di realtà assolute – idee e stati d’animo, oltre che concrete conquiste espressive – avulse da un prima e un dopo. E sotto questo profilo il culmine dell’Opera 119 di Brahms trovava premesse e insieme completamento nelle variazioni in sviluppo sul tema di Händel, che impegnano il pianoforte in un funambolico dispiegamento di tutte le risorse della tecnica strumentale.
Quando un concerto riesce così convincente e denso, il merito del pianista è duplice: aver affrontato un tema arduo e averlo saputo svolgere adeguatamente son tutt’uno.
da “”Il Giornale””