Torna riveduto il saggio di Rubens Tedeschi sull’opera russa e sovietica
Quando apparve per la prima volta dieci anni fa, direttamente nella Universale Economica Feltrinelli, I figli di Boris era il primo studio italiano di una certa ampiezza e organicità sulla storia dell’opera russa dell’Otto e Novecento. Erano ancora anni in cui per molti parlare di quella storia equivaleva a proporre un modello di teatro e dl cultura anche ideologicamente opposto a quello occidentale, con motivazioni e convinzioni di natura non prettamente o non solo artistica; dove per esempio Ciaikovskij era ancora considerato il rappresentante russo della borghesia europea nel crepuscolo del secolo, mentre Mussorgskij – naturalmente quello «originale» – parlava «profeticamente il linguaggio del popolo in rivolta, vinto, tradito ma non domo».
L’esaltazione delle avanguardie nate dalla rivoluzione non usciva sminuita dalle vicende dell’era staliniana, ma anzi, per curioso paradosso, rafforzata dalla resistenza della politica culturale sovietica all’ansia di un rinnovamento universale. Che il teatro russo presentasse una linea di continuità dalla nascita e affermazione della scuola nazionale nell’Ottocento fino ai nostri giorni non solo non sembrava poter venir messo in dubbio ma rappresentava anche un sistema di valori in cui credere, da contrapporre in forza dell’impegno popolare e democratico, al teatro «borghese», aristocratico e decadente.
Neppure Rubens Tedeschi, nel suo studio, ne dubitava. Anche se gettava luce con qualche distinzione e precisazione sulle aberrazioni dello zdanovismo, prendendo appassionatamente le difese di Shostakovic («Anche i migliori», egli scrive, «debbono adattarsi» alle imposizioni del realismo socialista) e, con meno calore, di Prokofiev (costretto a un «impossibile compromesso tra il proprio genio e i dettami del regime»), la sua lettura non metteva in discussione i principi fondamentali della metodologia marxista e della fede comunista; identificando 1’«arma del rinnovamento russo» nella vocazione alla «diversità» e alla «verità» della coscienza dei suoi artisti.
Oggi, dieci anni dopo, la ristampa dei Figli di Boris è anche il documento di una revisione profonda di quell’atteggiamento: assai più attuale delle integrazioni, aggiunte e correzioni che il progredire degli studi e la conoscenza di nuovi documenti hanno reso tecnicamente possibili. Se non il dubbio, almeno la riflessione critica ha prodotto i suoi effetti. E va dato atto a Tedeschi di avere affondato con coraggio il bisturi proprio dove la ferita era più infetta. Un caso, fra i tanti: nel capitolo, tanto «delicato» quanto cruciale, sulle trasformazioni «dalla Russia all’Urss», si leggeva nella prima edizione: «Ormai però la Russia uscita dalla rivoluzione d’ottobre è un Paese ben diverso da quello del passato. Nell’entusiasmo iniziale la rivoluzione non sconvolge soltanto i rapporti politici ed economici, ma apre un mondo nuovo alla cultura liberata dall’antico privilegio aristocratico». Vi si legge invece oggi: «Ormai però la Russia uscita dalla Rivoluzione d’Ottobre è un Paese ben diverso da quello del passato. Nell’entusiasmo iniziale la Rivoluzione non sconvolge soltanto i rapporti politici ed economici, ma sembra aprire un mondo nuovo alla cultura» (nostro il corsivo, non le maiuscole). «Quale cultura?», si chiede poi in aggiunta Tedeschi; la risposta è ora laconica: «L’interrogativo si pone immediatamente e riceve risposte contraddittorie».
Già. Ma sulla «operazione anticulturale di Zdanov» il critico musicale dell’«Unità» non pone limiti alla certezza: «In realtà, sotto le pretestuose giustificazioni sta la cruda esigenza politica di irregimentare la cultura, stroncando i germi di libera intelligenza fioriti quando, nei giorni del maggior pericolo, Stalin aveva allentato le redini. Bandita ogni originalità di pensiero, tagliati i ponti con l’Occidente “”corrotto e decadente””, l’arte e la scienza sovietica toccano il punto più basso». Addio per sempre, magnifiche sorti e progressive.
Distruggendo l’immondo castello della retorica e della mistificazione socio-politica, l’autore infittisce la trama dei fatti e si sforza di esporre le diverse posizioni con obiettività: come a volerci raccontare non ciò che doveva essere, ma ciò che fu. A tutti gli effetti questa ristampa è una nuova edizione con criteri musicologici più attenti e documentati (e ciò può spiegare perché a farsene promotrice sia stata l’Edt, che si occupa specificamente di libri di cultura musicale): un’edizione arricchita di dati biografici e di riferimenti alle opere, anche a quelle minori (che prima erano tralasciate), le meno assimilabili al principio della continuità lineare. Degli stessi fondatori della scuola nazionale russa – il mitico «Gruppo dei Cinque» – noi abbiamo oggi del resto un’immagine assai più frastagliata e differenziata, tutt’altro che finalizzate a un’unica meta essendo le questioni che vi si dibatterono. Sicché anche la posizione occupata da Mussorgskij nel suo seno, affatto estranea al terreno della politica e del progresso, va oggi rivista alla luce della sua «verità» artistica; e tutta da riconsiderare, di conseguenza, appare la genealogia stessa dei padri e del figli di Boris, se davvero Boris Godunov (e non per esempio Kovancina)l è il termine di paragone di questa storia.
Utilmente Tedeschi rivaluta l’importanza che l’europeizzante Rlmskij-Korsakov rivesti nell’interpretare la musica dell’amico, storicizzando la funzione del «gruppo possente», e non richiude in compartimenti stagni il tortuoso cammino percorso dal teatro russo nella diffusione dei suoi temi in patria e in Occidente. Grande rilievo assumono la statura tragica della figura di Shostakovic, apocalittico cantore di un pessimismo disperato e graffiante (non contro gli altri, ma contro i «suon»), e l’amaro disincanto con cui Stravinskij cantò le ambigue utopie della sua terra: testimonianza estrema di un fallimento dell’ideologia lucidamente intuito e denunciato (peccato però che Tedeschi continui a ostinarsi in una lettura «di sinistra» del neoclassicismo stravinskiano).
Che ne risulta, alla fine? La stagione del teatro russo non è l’alba radiosa di un’arte che annuncia al mondo valori assoluti e monolitiche certezze ma la faticosa giornata di un lavoro di ricerca e di conoscenza che affonda le sue radici nei tumulti dei sentimenti, nei contrasti delle passioni, ed è perciò scosso da oscillazioni persistenti che ne mettono a dura prova la lotta per l’esistenza e l’autonomia. Neppure l’anima russa, nella sua ansia di verità artistica, ha potuto sottrarsi al groviglio delle contraddizioni e degli interrogativi, che sono anche i nostri, e che un tragico imbroglio volle ridurre al gelido miraggio di un ottimismo impossibile.
Rubens Tedeschi, “I figli di Boris. L’opera russa da Glinka a Shostakovich”, Edt, pp. 253, lire 32.000
da “”Il Giornale””