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Pregi e difetti di una nuova collana sul XX secolo

La collana «Musica Studio» della Targa italiana, dedicata ai «grandi musicisti del XX secolo», è ormai giunta alla metà dell’opera: sono infatti stati pubblicati sei dei dodici volumetti previsti in origine. Su questa insolita iniziativa – insolita per la materia stessa che tratta, e cioè la musica del nostro secolo – è possibile fare un primo bilancio, prendendo spunto da due delle ultime uscite: Karlheinz Stockhausen di Carlo Boschi e Benjamin Britten di Adriano Bassi (che è il curatore dell’intera collana).

L’impianto generale è, grossomodo, quello della guida tascabile: apparati storico-critici all’inizio, un primo capitolo per la vita, un secondo per le opere, appendici con bibliografia e discografia essenziali. Il tutto in un numero di pagine limitato e a prezzi contenuti. L’idea di fondo è che anche la musica del nostro secolo – da Stravinskij fino ai contemporanei della generazione di mezzo – possa avere un mercato e un pubblico di interessati; non solo: che l’argomento non sia refrattario ma anzi invogliante se trattato nella forma di una guida all’ascolto tradizionale, mescolando termini tecnici a piane illustrazioni descrittive, esempi musicali ad analisi estetiche e compositive.

Ciò sarà vero forse altrove, dove la divulgazione – in musica come nelle altre arti – ha regole precise, e una sua dignità consolidata. Anche sotto questo profilo l’Italia è in ritardo rispetto alla Francia e alla Germania; per non dire ai Paesi di lingua inglese, che questo genere hanno creato e diffuso. Da noi si va invece per eccessi: o tutto o niente. E i musicologi (o i musicografi di professione) preferiscono ancor sempre l’edizione specialistica di un qualsiasi codice raro allo sforzo e alla responsabilità di mettere la loro scienza al servizio di una seria conoscenza della musica tra il pubblico degli interessati, alzandone così il livello e le pretese, e, in potenza, il numero.

Solo da poco, alla prestigiosa iniziativa editoriale delle opere monumentali o culturalmente importanti, per lo più provenienti dall’estero (in questo caso diventa drammatico il problema delle traduzioni, per motivi analoghi di ignoranza o di abitudine), si affianca una produzione di più incerte pretese, il cui scopo dovrebbe essere l’informazione o la educazione di base. Si vuole sapere in centocinquanta pagine chi era Beethoven, o che cos’è la forma-sonata? Ecco lo strumento che te lo spiega, in modo serio, semplice e chiaro. Ma per far questo occorrono almeno due qualità: il dono della sintesi (che è poi anch’esso il risultato di una solida tradizione e in Italia essa esiste solo forse per il melodramma dell’Ottocento) e la chiarezza dello stile. O comunque qualcosa di comune su cui intendersi.

La collana di Bassi (e a maggior ragione il suo Britten) sembra ignorare che la vera questione della divulgazione musicale ruota oggi più che mai attorno al nodo del linguaggio da usare. Come spiegare fenomeni innovativi della forma, della concezione e del valore stesso della musica con termini adeguati, e nello stesso tempo comprensibili? Come tradurre ciò che per un musicista è intuitivo senza (o viceversa con) espressioni specificamente tecniche, sì da farsi capire da chi legge e probabilmente non ha una formazione di base? Senza porsi questi interrogativi, una collana

musicale per così dire popolare rischia di sparare nel mucchio, e di non cogliere nessun bersaglio: né quello di chi nulla sa e vorrebbe sapere, né quello di chi già sa qualcosa e vorrebbe saperne di più. Una collana di questo genere non può eludere il problema di una identificazione chiara di sé e dei propri interlocutori.

A seconda del punto di vista, questo obiettivo può essere più difficile o più facile da raggiungere nel caso che l’argomento sia la musica del Novecento: più difficile, perché la musica del Novecento è apparentemente più ostica e meno gratificante, oltreché, salvo rare eccezioni, meno eseguita di quella del passato; più facile, perché si tratta comunque di un’espressione artistica della nostra epoca, e quindi di fatti e creatori nostri contemporanei, che teoricamente dovremmo sentire più vicini. Determinante è perciò il modo in cui la materia è affrontata. Bassi, che pure è scrittore misurato e sensibile, non sceglie né l’una né l’altra strada: si limita a esporre, analizzare e chiosare come se l’oggetto fosse già qualcosa di noto, da celebrare e ammirare nella sua normale, acclarata grandezza; dando per scontato cose che verosimilmente, per il pubblico che legge un libro del genere, scontate non sono affatto: per esempio l’integrazione fra una descrizione analitica impressionistica e analogica e l’esempio musicale (già di per sé arduo da decifrare senza altre indicazioni) sbattuto nella pagina a fronte.

Le cose vanno meglio con Carlo Boschi, che di Stockhausen dà un ritratto molto parziale e sommario, ma almeno coraggiosamente personale e indicativo. Alla fine il lettore un’idea di Stockhausen ce l’ha, e può essere invogliato ad approfondirla e verificarla nella musica: anche grazie a uno stile incisivo, efficace, rapido, che procede per definizioni limpide e schiva la retorica (sempre in agguato quando si parla di Stockhausen e di misticismi). Questo significa raggiungere un primo scopo e tracciare una via.

 

Adriano Bassi, «Benjamin Britten», Targa italiana editore, pp. 139, lire 20.000

Carlo Boschi, «Karlheinz Stockhausen», Targa italiana editore, pp. 126, lire 20.000

da “”Il Giornale””

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