Che maledizione aver talento

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Gli scritti critici di Robert Schumann su Chopin e il virtuosismo romantico al pianoforte


In nessun musicista dell’Ottocento il rapporto fra letteratura e musica fu così intimo come in Robert Schumann. E non soltanto perché la letteratura accompagnò le tappe della sua arte, dandole un indirizzo e un valore, aprendo la strada verso quella «poetizzazione dell’esistenza umana» che sarebbe stata completata e rivelata appunto dalla musica; ma anche perché Schumann fu, nel senso più pieno del termine, poeta e letterato, fondatore di una critica musicale di ampio e molteplice respiro, ch’egli esercitò per un lungo tratto della sua vita allo scopo di sostenere i principi dell’arte romantica e di affrettare il compimento di una nuova poetica potenziata dal connubio delle arti.

A differenza per esempio di Wagner, che passò la metà dell’esistenza a prefigurarcene e illustrarcene l’altra metà al solo fine di giustificare se stesso e l’avvento del dramma musicale, Schumann con i suoi scritti non mirava a restringere bensì ed allargare gli orizzonti della musica; sentendosi tutt’al più l’apostolo di una verità non dogmatica, per quanto si identificava nella sacra confraternita dei seguaci di Davide in lotta contro i filistei. Ma questa lotta non riguardava solo lui e privilegiava anzi un principio ideale: per promuovere un’autentica rivoluzione del gusto e della pratica musicale eliminando tutti coloro che ne intaccassero la purezza e l’ardimento. E in questa battaglia Schumann non era, né si sentiva, affatto solo.

La ricchezza inesauribile di immagini, di metafore e di invenzioni poetiche di cui è intessuta la critica schumanniana è conseguenza evidente di questo stretto contatto con la letteratura, non solo del suo tempo. Il suo caratteristico stile allegorico e frammentario, che tenta di visualizzare l’atto creativo, è impregnato di un linguaggio assolutamente nuovo applicato alla musica, nel quale la descrizione verbale, con le sue impennate e le sue perifrasi, e viceversa con i suoi motti e aforismi, tende a chiarire l’opera o l’autore, e ancor più i moventi interiori che spingono queste in funzione di quella. Giacché per Schumann fine di ogni discorso sulla musica e sull’arte è il superamento dei connotati esteriori e la rivelazione di quell’essenza che si cela dentro l’opera musicale.

E non solo di ogni discorso. La raccolta che Roberto Calabretto ha curato, attingendo alla fonte copiosa delle Gesemmelte Schriften uber Musik und Musiker di Schumann, mette l’accento fin dal

titolo (Chopin e il virtuosismo romantico. Viaggio sentimentale attorno al pianoforte) su un aspetto che è parte integrante del modo di essere della musica: l’interpretazione.

Nella figura dell’interprete Schumann vede riunite in primo luogo e al massimo grado le qualità tanto del creatore quanto del ricreatore; non solo nel senso che alla sua epoca, e proprio nei casi più spettacolari dei vari Thalberg, Liszt e Paganini che tanto lo avevano impressionato, l’esecutore si identificava con il creatore stesso e ne era per così dire l’estrinsecazione. Al rango eccelso dell’interprete appartiene colui che è in grado di rendere trasparente la materia per far apparire la sostanza della musica nell’infinito tendere dello spirito verso l’assoluto: ossia verso la Verità e la Poesia. E ciò lo distingue dal virtuoso, che nella pratica esecutiva si concede ad effetti appariscenti e straordinari miranti a mettere in mostra le sole capacità esecutive e a stupire con l’abilità della tecnica: rivelando così il suo atteggiamento da ciarlatano (oggi si direbbe «divo») e assecondando il gusto fatuo dei filistei.

La contrapposizione dell’interprete al virtuoso è un anello nella catena dei contrari culminante nel binomio di genio e talento. Il celebre aforisma sul genio, ancora più significativo perché proviene da quell’Eusebio che dell’anima di Schumann incarna la parte più mite, dolce e «ingenua», è a questo proposito emblematico: «E’ la maledizione del talento quella di non riuscire a raggiungere il traguardo pur lavorando con più sicurezza e costanza del genio. Mentre quest’ultimo, sulle sue cime ideali, di lassù si guarda attorno ridendo». Non per nulla la scoperta folgorante di Chopin, nuovamente introdotta da Eusebio, è contrassegnata da un’esclamazione risolutiva: «Giù il cappello, signori; ecco un genio». Genio e non solo talento, Chopin rappresenta insieme l’antitesi e la sintesi del virtuosismo romantico: con lui il virtuosismo tocca vette più alte che non le pure prove della somma abilità e dello splendido artifizio; e nel momento in cui sembra accettarle, illumina e trasfigura le abitudini d’ascolto dell’ambiente che lo circonda e dell’epoca che le accoglie. In Chopin creatore, ricreatore e interprete sono una cosa sola; e, pur camminando fra noi, si muovono nei cieli dell’assoluto. Documenti di un’epoca, di una personalità visionaria, di una corrente di pensiero e di una strenua ricerca che fonde al sacro fuoco dell’arte espressioni diverse, non disdegnando la sferzata umoristica, gli scritti di Schumann sono non soltanto un viaggio sentimentale attorno al pianoforte e ai suoi eroi, che ne costellano il paesaggio, ma anche testimonianze di un modo di sentire che ci conduce al cuore della musica, e di noi stessi.

 

Robert Schumann, «Chopin e il virtuosismo romantico», a cura di Roberto Calabretto, Marsillo, pp. 232, lire 28.000

da “”Il Giornale””

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