Viaggio a Bologna e dintorni

V

In un libro Buscaroli racconta il soggiorno di Johannes Brahms in Italia nel 1888


Johannes Brahms venne in Italia per la prima volta nell’aprile 1878. Preparato fin nei dettagli su libri di storia dell’arte e fonti letterarie, quel viaggio fu il primo di una serie che riempì di emozioni e di entusiasmo più di una primavera dei suoi anni maturi. È una fortuna che alla compagnia dei libri Brahms amasse unire anche quella degli uomini: forse perché la solitudine, ch’era la sua compagna abituale, non si confaceva alla condizione del viaggiatore; neppure di un viaggiatore tutt’altro che comune è animato dall’istinto del Wanderer tedesco quale egli era.

Fonte più di ogni altra preziosa, pur con le dovute precauzioni, sono le memorie brahmsiane del poeta commediografo e giornalista svizzero Joseph Viktor Widmann, che tre volte lo accompagnò in Italia nel 1888; affidate a ben due libri finora regolarmente ignorati in Italia, queste memorie sono la base da cui è partito Piero Buscaroli per ricostruire, in un piccolo «capriccio», un ritratto del Brahms «italiano» assai più penetrante di ciò che promette il titolo: Johannes Brahms a Bologna e in Romagna nel maggio 1888 (Nuova Alfa Editoriale, pp. 79, lire 12.000).

Fu, quello del maggio 1888, un viaggio particolarmente importante per Brahms, che seguì di poco — e forse ne fu una specie di liberazione — la decisione di una duplice resa: rinunciare a comporre un’opera e a sposarsi. Iniziato quasi simbolicamente il giorno del suo cinquantacinquesimo compleanno, il 7 maggio 1888, quel viaggio aveva come meta principale Bologna, dove si annunciava, tra i festeggiamenti per l’ottavo centenario dell’Università, una esposizione musicale internazionale; occasione più unica che rara per passare in rassegna un incredibile assortimento di tipi e di ceti sociali in cui un viaggiatore di solito non si imbatte: coppia reale in testa.

Sfilano così, nel racconto di Widmann rinfrescato da Buscaroli, scene e scenette a cui pare di assistere attraverso lo sguardo curioso e insieme incantato di Brahms: lo scontro della carrozza della Regina col calesse di una famiglia di contadini, con la Regina in persona che scende per soccorrere i feriti; un concerto di musiche antiche con gli «strumenti originali» finito in clamoroso fiasco, ma senza ilarità dell’illustre ospite, che ne aveva previsto la comica finale; l’incontro con un sordomuto che nella notte, sotto i portici, disegna per terra con un carboncino il ritratto di Cavour in grandezza naturale, e desta in Brahms emozione e ammirazione entusiastica. Fino alla rievocazione della visita di Giuseppe Martucci, apostolo italiano della musica tedesca, che cade in ginocchio davanti a Brahms e gli bacia la mano: un quadretto che vale a dipingere una situazione storica e una personalità più di una dotta disquisizione musicologica.

Alla vivida rappresentazione di questi e quant’altri episodi delle discese di Brahms in Italia, Buscaroli alterna riflessioni illuminanti sull’attrazione di quel santone straniero con lunga barba per il paese dove fioriscono i limoni. Per quanto l’Italia si facesse amare per l’indole naturale della sua gente, per i suoi paesaggi, per le sue bellezze e persino per le sue miserie, centro motore della passione di Brahms per l’Italia rimaneva la pittura italiana, che gli fu non meno cara dell’adorata musica tedesca del passato. Nell’arte del Rinascimento Brahms ritrovava se stesso e la sua più profonda natura creativa: il suo rapporto coi tesori dell’arte italiana era spontaneo e cordiale, non complicato dagli atteggiamenti della ricerca storico-artistica professionale.

Nel turbamento provato di fronte a un quadro del Parmigianino, Buscaroli vede lo stesso trasalimento della generazione di pittori che seguì la fine dell’età classica di Michelangelo, di Raffaello, di Tiziano. E questa considerazione gli detta un’epigrafe indimenticabile: «Egli sentì, come nessun artista della sua età, la condizione dell’epigono di uno stile storicamente concluso. Addossato all’ultima frontiera, contemplava la felice età delle forme leggiadre e naturali, quel mezzo secolo di alacre e fiduciosa ricchezza che si stende tra il lavoro del maturo Haydn, la febbre mozartiana, l’ultimo solitario sforzo di Beethoven. Il grande stile era là, nessuna forza lo avrebbe richiamato in vita. Brahms custodì le forme classiche con un rispetto adorante, in uno sforzo di rianimazione che, più ancora che nelle Sinfonie, trovò i suoi culmini nei lavori di quegli ultimi tempi, le Sonate, per violino, violoncello, i Trii, i Quintetti in cui meglio si manifestano i caratteri del suo manierismo: la torsione e la tensione esercitate sulle linee di una forma che rimaneva, nelle strutture, intatta; l’imitazione e commemorazione dei supremi modelli indimenticabili; e, infine, la citazione di particolari testuali, incisi e frammenti del passato, disseminati nelle composizioni attraverso quella inserzione imitativa che è propria di tutti i manierismi».

da “”Il Giornale””

Articoli