In punta di madrigale

I

Apice e declino di un’epoca della musica nel libro curato da Paolo Fabbri

Nella collana «Problemi e prospettive» del Mulino la sezione dedicata alla musica e allo spettacolo ha ormai un suo spazio e ambisce ad acquistare autorevolezza. L’idea di riunire in volume una serie di saggi di orientamento diverso su figure o temi centrali della storia, degli stili o delle forme, non è certo nuova ma può rivelarsi utile: molto dipende dalla scelta e dall’inquadramento del materiale. Nel nostro caso l’alto grado specialistico dei contributi, per lo più traduzioni di autori stranieri di estrazione anglosassone, oltrepassa l’ambito della divulgazione e si indirizza piuttosto verso il mondo accademico, per fornire testi base di studio e di approfondimento. Vi si rispecchia la tendenza, dominante nella nostra musicologia, a privilegiare metodologie d’indagine altrove già da lungo tempo affermate, per assimilarle e mettersi al passo con l’attualità: in attesa di fondare anche una propria tradizione analitica e storiografica.

Esemplare di questa tendenza è il volume Il madrigale tra Cinque e Seicento curato da Paolo Fabbri. Anzitutto nell’impianto. Fabbri ordina il materiale in sei parti, ognuna delle quali affronta sotto un punto di vista diverso l’evoluzione del madrigale; e se la cornice delimita uno sviluppo in senso cronologico e storico — dalla questione delle origini alla dissoluzione del madrigale nella nuova pratica monteverdiana —, all’interno del quadro vengono messi in rilievo, analiticamente, singoli aspetti costitutivi e caratteristici della diffusione del madrigale: di natura, prima ancora che specificamente musicale, letteraria, sociale e culturale.

Semplificando, la storia del madrigale tra Cinque e Seicento può essere vista come la progressiva conquista di una individualità stilistica sulla base di una sempre più spiccata astrazione dalle ragioni che ne avevano fatto una forma di raffinata ed elegante classicità nella pur ricca tradizione della musica polifonica, italiana e non. Ma è significativo che proprio al culmine di questa raggiunta individualità, il madrigale s’estingua, di fatto se non nel nome, con Monteverdi, in un fiammeggiante crepuscolo.

In altri termini il madrigale, alle cui origini stanno da un lato il nuovo rango della poesia di stile elevato intrisa di culto petrarchesco — che incide non solo sulla maggiore qualità letteraria del testo ma anche sull’acquisizione da parte della musica di precise tipologie metriche e formali —, dall’altro i riti e i «giuochi» degli ambienti colti e raffinati della società del tempo — che sembra incarnarne lo spirito di equilibrata eufonia —, tende a poco a poco a emanciparsi e a raggiungere una propria autonomia linguistica e formale. Quello che prima era sfondo, viene per così dire in primo piano e si cristallizza.

Ciò avviene in tre fasi distinte, per quanto interagenti: dapprima con la messa a punto di un vero e proprio «laboratorio musicale», nel quale il madrigale fissa i propri. connotati e la propria immagine (per esempio accelerando il passaggio da residui modali a procedimenti armonici di folgorante espressività, come nel caso di Gesualdo, o di più ampie, unitarie relazioni); poi accumulando le «stratificazioni culturali» fino a farne saltare i rapporti interni, per esempio nella parodia letteraria e musicale, segno di una libertà sempre più marcata e orgogliosa del musicista; e infine con l’affermazione, in una ricchezza di mezzi espressivi, stilistici e formali fino ad allora sconosciuta, di una «nuova sintassi», tutta fondata sul processo di formazione musicale e sulla sua logica.

Hammerstein, nel saggio conclusivo, ha i suoi buoni motivi per sostenere che «questa nuova concezione formale ha trovato nei madrigali dell’ultimo Monteverdi una delle sue più precoci e splendide manifestazioni. Essa corrisponde in pieno a quello che è stato appropriatamente definito “”l’ascolto musicale dell’età moderna””, destinato un giorno a culminare nella scrittura del classicismo viennese». Così il vecchio madrigale, nato per il diletto di sensibili conoscitori o, come aveva detto Zarlino, «per passare il tempo virtuosamente», diviene sempre più affare di musicisti di professione, per ascoltatori che non partecipano più in prima persona.

In questo fatto noi moderni siamo istintivamente portati a vedere un progresso. In realtà, esso coincide con la fine di un’epoca. E, a voler riprendere il parallelo di Hammerstein, Monteverdi, che ne rappresenta l’apice, ebbe in un certo senso la stessa funzione di Beethoven nello stile classico: la vetta isolata disgrega il flusso compositivo unitario ch’era proprio anche del madrigale, e annuncia un’epoca nuova, nella quale per esso non ci sarà più posto se non come citazione o ricordo.

 

Paolo Fabbri (a cura di) «I1 madrigale tra Cinque e Seicento», il Mulino, pp. 372, lire 38.000 .

da “”Il Giornale””

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