Nella capitale bavarese entusiasmante apertura del festival con «Mathis il pittore»
Monaco – Quale altro grande teatro oserebbe aprire il suo festival con un’opera poco conosciuta, dura e perfino sgradevole come Mathis der Maler di Paul Hindemith? A Monaco è possibile. Per il semplice fatto che a Monaco il repertorio, soprattutto quello che conta (Mozart, Wagner e Strauss occupano anche quest’anno i tre quarti abbondanti del ricchissimo cartellone), è un possesso stabile, sicuro, e dunque consente qualche escursione sul versante delle rarità: che poi, con un numero adeguato di repliche, finiscono per entrare anch’esse, se non nel repertorio, nella coscienza del pubblico.
L’inaugurazione del festival diviene cosi occasione solenne per riproposte importanti. Quale è appunto quella dell’opera centrale della produzione di Hindemith, su cui Wolfgang Sawallisch va personalmente insistendo da anni. Mathis der Maler rimane tuttavia una sfida difficile.
Rappresentata per la prima volta a Zurigo nel 1938, Mathis il pittore presenta molti dei connotati tipici del teatro musicale del Novecento, nel senso per esempio di Palestrina di Pfitzner, del Faust di Busoni o di Moses und Aron di Schönberg. Gli ingredienti dell’opera tradizionale tendono a scomparire già nella scelta del soggetto, nella concezione e nell’impianto drammaturgico: costituito non di atti chiusi in sé ma di quadri – sette – che si dissolvono, pur essendo separati, l’uno nell’altro e sono allineati per contrasto. In luogo di passioni individuali e di scontro di affetti domina un conflitto insieme etico, estetico e politico: l’opera è ispirata alla figura del pittore Matthias Grünewald colto in un momento di crisi esistenziale e di identità, sullo sfondo storico della guerra dei contadini e della lotta fra luterani e papisti nella Germania cinquecentesca.
Nella crisi di Mathis, Hindemith concentra tutta una serie di interrogativi sulla missione dell’artista e sul significato dell’arte in sé e di fronte agli eventi della storia; con evidenti riferimenti alla situazione dell’epoca a lui contemporanea. La creazione dell’altare di Isenheim, l’opera di tutta una vita, diviene così per Mathis (e metaforicamente per Hindemith) lo specchio che riflette gli avvenimenti del tempo, i massacri e le contese, e insieme li trasfigura in una interpretazione mistica, spirituale e universale. Punto culminante dell’opera è il sesto quadro, nel quale Mathis rivive come in un incubo le forme da lui stesso dipinte e vede sfilare davanti a sé i personaggi della vita reale: pagine tra le più alte e impressionanti di tutto il teatro novecentesco. Dapprima tentato da una visione dell’arte fine a se stessa, poi portato a farsi coinvolgere dalle vicende e a prenderne parte solo per riconoscerne l’orrore e l’inesattezza, il protagonista sceglie da ultimo la solitudine e la rinuncia, in un ripiegamento interiore che lascia gli interrogativi aperti.
L’ambizione di Hindemith di portare sulla scena un soggetto di tali implicazioni è pari alla ricerca di un linguaggio «operistico» ad esso adeguato. Determinante per l’opera è la preparazione della Sinfonia omonima, che oltre a racchiudere i tre momenti fondamentali della vicenda di Mathis nell’illlustrazione dell’altare famoso offre il materiale tematico e la tessitura, di chiara matrice sinfonica. Il lavoro compositivo, con l’aggiunta delle voci e dell’azione, dipanandosi in un declamato di assorta espressività, in densi blocchi corali, in un accorto dosaggio di tensioni (soprattutto nei duetti) e di distensioni (negli ampi monologhi), raggiunge un peso teatrale, una pregnanza drammatica sulla carta francamente impensabili per un’opera di così austero pensiero.
L’impressione perfino entusiasmante che se ne è avuta questa volta è in tutta misura dovuta alla qualità dell’esecuzione; e in primo luogo all’eccellenza della concertazione di Sawallisch. Quando Sawallisch decide di andare a fondo in un partitura – anche se si tratta della prima volta – è capace, semplicemente, di trasformare in oro tutto quel che tocca. La purezza del fraseggio, la magistrale calibratura dei piani sonori, la sapiente individuazione degli snodi e delle confluenze della musica miravano sempre a tradurne l’ordito linguistico – qui estremamente denso, irto di contrappunti, complesso nella miscela di modernità, reminiscenze, citazioni; ma anche rarefatto, a tratti luminosissimo – in una vera e propria dimensione teatrale. Ed è su questo piano che Sawallisch ha vinto la sua sfida: rendendo credibile e convincente, poeticissimo, il mondo ideale di Hindemith sulla scena.
Ammirevole, pressoché perfetta nelle parti di contorno (che sono poi in realtà altrettante prime parti, tutte coperte dagli splendidi elementi stabili del teatro), la compagnia di canto ha avuto i suoi punti di forza nel nobilissimo Mathis dell’ottimo baritono John Brocheler, nello svettante Wolfgang Neumann (il cardinale arcivescovo protettore di Mathis) e nel limpidissimo Robert Schunk (il capo degli insorti): l’uno e l’altro ruoli micidiali per tenori acuti. Molto appropriate, fra le voci femminili cui per altro viene sottratto lo sfogo lirico e amoroso, la Ursula di Sabine Hass e la delicatissima Regina di Angela Maria Blasi.
Tutti venivano benissimo impiegati scenicamente dalla regia una volta tanto efficace di Kurt Horres, su scene meno felici di Andreas Reinhardt: nonostante gli immancabili, maldestri tentativi di rendere più attuale la storia con le consuete citazioni paramilitari e naziste, per i quali si meriterebbe anche lui un po’ dei tormenti di Sant’Antonio come ce li raffigura Grünewald.
“Mathis der Maler” di Paul Hindemith al Festival di Monaco (replica oggi)
da “”Il Giornale””