Cinquant’anni fa moriva Maurice Ravel, un musicista tragicamente consapevole della precarietà in cui si dibatteva l’arte del suo secolo
Cinquant’anni fa moriva a Parigi Maurice Ravel, uno degli ultimi grandi compositori a cui le condizioni artistiche e spirituali del nostro secolo consentissero di varcare la soglia della classicità. Eppure, l’immagine di colui che già in vita fu considerato, scomparso Debussy, il maggior compositore francese, tardò ad esser riconosciuta con chiarezza. A caldo, non si poté fare a meno di vedere in Ravel anzitutto un seguace di Debussy e dell’ impressionismo, magari per assegnargli un posto di rilievo nel nome della continuità. Si rafforzava così un luogo comune che lo aveva accompagnato fin dagli anni giovanili, quando le prime importanti composizioni da camera, come il Quartetto e le liriche per voce e pianoforte, venivano accolte con circospezione e sarcasmo dai musicisti della vecchia guardia, che ricordavano i vani sforzi del giovane ambizioso provinciale (era nato nel 1875 a Ciboure, nei Pirenei baschi) per conquistare il Prix de Rome; ben quattro volte aveva tentato senza successo, ostinandosi a mettere in musica desuete cantate di argomento classico.
Pareva naturale che dopo quel fallimento Ravel cercasse un’uscita di sicurezza sul terreno della modernità, e s’ispirasse perciò al modello stilistico debussyano. Questo giudizio si stabilizzò col tempo; assumendo, però, sempre più una connotazione positiva, con la quale Ravel raggiunse, dopo, se non proprio accanto a Debussy, un margine personale di autonomia e indipendenza artistica, via via che nuove opere vedevano la luce.
La parentesi della guerra sospese la sentenza sulla sua posizione storica. Né la rettificò, nel senso che le era obbiettivamente proprio, l’utopia dogmatica delle avanguardie postbelliche. Per esse, Ravel non aveva parti assegnate da interpretare, se non quella che egli stesso si era assunto al di fuori dì scuole e correnti: testimoniare, con l’altezza delle sue opere, il diritto a creare, ad esprimere un mondo individuale di emozioni e pensieri nella misura di valori ostentatamente classici. Troppo poco per chi cercava, dietro di sé, soprattutto roccheforti da abbattere e saccheggiare, sistemi a cui offrire vittime e idoli nel nome del progresso.
E «sistemi» erano, appunto, Schoenberg e la sua scuola da un lato, e Debussy dall’ altro. Per converso, e per quanto paradossale possa sembrare, a Ravel ha nuociuto l’enorme popolarità di pezzi come il Bolero, caso, più unico che raro, di una pagina del Novecento che chiunque saprebbe riconoscere di colpo, o la Rhapsodie espagnole, o la virtuosistica trascrizione orchestrale dei musorgskiani Quadri di un’ esposizione. Questi lavori illustrano l’aspetto estroverso, brillante, sgargiante di colori e traboccante di invenzioni strumentali. A colpire, qui, è l’assoluta padronanza del mestiere da parte di un compositore che detestava il dilettantismo (e quindi non disprezzava la tecnica, del resto a lui assicurata da studi profondi, teorici e pratici) e diffidava delle fumose approssimazioni; di fatto, era stato uno dei pochi a discernere in Satie, oltre gl’intenti dissacratori, precisione di tratto e nettezza di contorni.
E tuttavia, nella sua intima natura, Ravel era un introverso, un solitario adoratore della forma e dello stile; tragicamente consapevole della precarietà in cui si dibatteva l’arte del suo secolo,quanto deciso a seguire il suo istinto e la sua cultura nella direzione della lucidità, della chiarezza, dello sforzo costruttivo, razionale, volto all’espressione, alla comunicazione di valori essenziali, nella vita come nella musica, senza cincischiamenti o sconfinamenti sul terreno del negativo. E quanto più questo sforzo esigeva il prezzo della solitudine e della nevrosi, tanto più la musica si decantava in uno strenuo impegno conservatore.
Aperto, per mentalità, alle esperienze contemporanee, pronto a cogliere ogni novità che gli apparisse degna di attenzione (e non solo nella musica; la letteratura e le arti visive ebbero uguale interesse per lui), Ravel fondò elettivamente la sua poetica nel confronto col passato, come fonte d’ispirazione e metro di valore. Le sue composizioni guardano al mondo antico (la Grecia di sogno immaginata come in una pittura del Settecento nel balletto Dafni e Cloe) con lo stesso incanto con cui si addentrano nella purezza dell’ infanzia e della fiaba, non ancora corrotte dal morbo psicoanalitico (L’enfant et les sortilèges, Ma mère l’Oye); resuscitano i maestri del passato in sontuosi abiti da cerimonia, con arcani riti di magia (la Sonatina, Le tombeau de Couperin); e le stesse forme classiche, la So-nata, il Quartetto, il Concerto, risplendono di una luce che riflette saldi principi di ordine e di equilibrio. Non che questi rivestimenti manchino dei connotati fondamentali della modernità: nei campi dell’armonia e del timbro, Ravel tocca vertici di un’audacia sottile, estrema; ma sempre commisurando la grazia del cesello e la screziatura del particolare a una visione d’insieme che ha nella precisione della linea melodica e nella pregnanza del costrutto ritmico punti di riferimento costanti. Ed è ciò che lo distingue, con vantaggio costituzionale innegabile, da Debussy. L’eleganza del disegno sottesa a una ricerca timbrica mai esasperata, salvo, forse, che nel colorismo acceso dei pezzi spagnoli, è il tratto caratteristico dell’arte di Ravel; anche nei pezzi pianistici (Jeux d’eau, Miroirs, Gaspard de la nuit), dove le suggestioni naturalistiche e figurative imponevano una più sensibile immediatezza. Se la qualità dell’invenzione non è sempre delle più alte, la cura della realizzazione strumentale è esemplare per eleganza e controllo. Ne viene l’insegnamento che il compositore deve imporsi una rigorosa disciplina se vuole tentare di raggiungere quella perfezione che gli è consentita; almeno e, in ogni caso, la perfezione più alta possibile della sua scrittura.
Che questo convincimento nascondesse anche una ironica sfiducia nei confronti dei problematismi e delle ideologie del secolo, quando pretendessero di applicarsi alla musica, non obbliga a concludere che Ravel negasse alla sua arte un compito formativo, e perfino un insegnamento etico. Quello di «un’occupazione inutile, deliziosamente piacevole e sempre nuova», come si legge nel motto, deliziosamente passatista e disimpegnato, che introduce alla Valse, l’opera sua più scopertamente rievocativa: un motto, il cui valore si è accresciuto, con 1′ andar dei decenni, fino ad apparirci, come ci appare oggi, insegna di un ironico e insieme poetico esercizio dell’ intelligenza e dello spirito.
da “”Il Giornale””