Si è dunque celebrato trionfalmente a Parigi, con il ciclo integrale delle nove Sinfonie e dei cinque Concerti per pianoforte e orchestra (più l’Ouverture dell’Egmont), il Beethoven formato gigante di Claudio Abbado. A dar lustro all’evento dell’anno alla Salle Pleyel (sei serate per la Société des Grands Interprètes, costate complessivamente oltre un miliardo e mezzo) c’erano, è vero, i Wiener Philharmoniker, magnifici eredi di una delle più alte tradizioni musicali; e c’era Maurizio Pollini, impegnatissimo a scavare per l’ennesima volta nella sua interpretazione sofferta e trascinante del pianoforte di Beethoven: ma il vero protagonista dell’esecuzione è stato lui, Abbado, con la sua orgogliosa sicurezza e la sua ferma determinazione nel guidare un’impresa al limite della sfida, anche con se stesso.
Eseguire nell’arco di una settimana tutta la maggiore produzione sinfonica di Beethoven è una prestazione eccezionale, che pone rischi non indifferenti di tenuta anche a interpreti di spettacolare efficienza. E non solo agli interpreti, per la verità. Un ascolto non superficiale, a questi ritmi e in dosi così massicce, lascia alla fine soprattutto un senso di sfinimento e di svuotamento, e comunica paradossalmente via via sempre più turbamento e incertezza: la densità del pensiero e la forza del suono di Beethoven sono talmente schiaccianti nella loro grandiosità e irruenza da non consentire neppure un attimo di tregua. Seguirne il percorso linguistico, l’arco formale, attraverso le impennate eroiche e i ripiegamenti intimistici, richiede uno sforzo spasmodico di concentrazione e di adattamento: si resta sgomenti, prima ancora che travolti, nel ripercorrere tutta d’un colpo l’avventura del gigante che in un trentennio di solitarie battaglie cambiò, con inflessibile ostinazione, il corso della storia della musica, per sempre.
Abbado ha di Beethoven un’idea molto concreta, pragmatica, e l’applica con rigore quasi maniacale. Tempi serrati, colori asciutti, scansione tesa, per una visione aggressiva e drammatica, tutta slanciata in avanti, lontanissima dalla misura classica. La sua lettura è straordinariamente penetrante nei dettagli: non v’è particolare o accento che non venga sottolineato con imperiosa evidenza. Perfino il gesto è cadenzato sul singolo tratto, secondo la sua natura di direttore soprattutto analitico, che ama tornire plasticamente il disegno e sviluppare gli impasti sonori distribuendo gli attacchi e incalzando ogni sezione dell’orchestra. Sembra talvolta che egli inclini a leggere Beethoven per parti interne sino a rivoltarlo come un guanto, per entrare nelle pieghe più nascoste dell’ordito compositivo, anzitutto armonico: a costo talvolta, non sempre, di forzare la naturalezza del respiro e l’ampia gittata, unitariamente profonda, della frase, per renderla più intensa.
A tutto ciò si conforma il suono dell’orchestra viennese, che sotto l’ormai stabile direzione musicale di Abbado ha modificato la leggendaria, soave morbidezza degli archi (da lui tenuti costantemente alla corda, con colpi d’arco brevi e spiccati), per acquistare maggiore compattezza e risonanti fanno da continuo contrappeso agli sviluppi della linea melodica (e si inspessisce così il tessuto polifonico), gli strumentini hanno un rilievo pronunciato, luminosità accecante gli ottoni. La scelta di rinforzare l’organico è coerente con questa impostazione, ma non risulta sempre convincente: nonostante che Abbado sia un maestro nell’ottenere sonorità trasparenti, da camera, anche con masse enormi. Ma se otto contrabbassi (e il resto viene di conseguenza) sono oggettivamente troppi per Sinfonie come la Settima e l’Ottava, il raddoppio ormai di moda dei fiati produce un’ enfasi sonora che non di rado appare sovrabbondante nella sua stessa sontuosità. Il terzo corno che Beethoven introdusse nell’Eroica con gesto rivoluzionario perde molto del suo effetto quando l’organico ne presenta addirittura sei, come fa anche Abbado. Ed è una concessione discutibile, in un musicista così rigoroso, all’imperante uso moderno, esemplificato dai dischi.
Sarebbe ozioso fare distinzioni di merito supponendo nel cammino tutt’ altro che concluso dell’interprete una maggiore o minore congenialità con questa o quella Sinfonia. Eppure la Quinta (con cui Abbado tornerà lunedì sera alla Scala dopo una lunga assenza, e sempre Wiener) è parsa un vertice assoluto di tensione drammatica e morale, oscuro e fiammeggiante insieme; l’Eroica, la Quarta, la Settima e la Nona riflettono già chiaramente un approfondimento interpretativo maturo, fatto di autentica consapevolezza e di sensibile, inquieto abbandono. Qui, oltre alla bravura e alla perfezione tecnica del direttore, ci sono molte idee inedite e determirminanti che colpiscono e affascinano. Nella Pastorale invece Abbado stenta ancora, forse per pudore, a lasciarsi andare interamente alle suggestioni e ai puri d’animo che impregnano la partitura, nel suo speciale originale descrittivismo: più attento alla nettezza del disegno che alle gradazioni e alle sfumature dei colori.
Ma queste sono appunto solo impressioni, che valgono come tali e che tolgono all’effetto d’ insieme, folgorante, dell’impatto con Beethoven e con un interprete dei nostri tempi in questo ciclo parigino. Placata la tempesta e vinta la battaglia del momento anche Abbado tornerà a riflettere, come noi, con più distensione, sul gigante che ancora getta la sua ombra sulle nostre passioni e sulle nostre aspirazioni: più attuale e necessario che mai. E la sfida continua.
da “”Il Giornale””