Pessime esecuzioni e clima africano
Mai come quest’anno questi verbi un po’ enfatici sono appropriati al luogo massimo del culto in musica. Ma per ragioni che con la musica hanno a che fare solo in parte.
Innanzitutto James Levine, direttore del nuovo allestimento della Tetralogia L’anello del Nibelungo, ha stabilito un nuovo record: il suo Ring è ora il più lungo nella storia del festival, dura esattamente 15 ore e 37 minuti. Ha battuto di 17 minuti il mitico Hans Knappertsbusch del 1951, famoso per la lentezza dei suoi tempi (altri tempi, in ogni senso). Per farsi un’idea della performance basti dire che il famigerato Ring del centenario, con Pierre Boulez, durava nel 1976 13 ore e 39 minuti. Non fu il più veloce, ma quasi: meglio (o peggio, chissà) di lui fece solo Otmar Suitner nel 1966, fermando la lancetta a 13 ore e 17 minuti. Dunque, fra i due estremi corrono ben 2 ore e 20 minuti: un’enormità, anche considerando le dimensioni ciclopiche e i connessi aspetti interpretativi delle quattro opere, o meglio della lunga vigilia e delle tre grandiose giornate che formano appunto la Tetralogia.
Il tutto è avvenuto nell’estate più torrida di cui si abbia ricordo anche in Germania: 41 gradi nei palchi (che per fortuna sono pochi, ma di un’angustia micidiale) del Festspielhaus; da 35 a 39, in crescendo durante le rappresentazioni, nelle gradinate dell’anfiteatro, dotate di seggiole proverbialmente strette e scomode. Collegate durata e temperatura e non faticherete a capire perché con Wagner quest’anno si sia potuto davvero delirare e svenire.
La lentezza di Levine, ideologicamente presentata con astuzia come un rifiuto morale della velocità tipica dei nostri tempi, non è una sfida o una proposta interpretativa epocale (detto in modo sbrigativo: non si riallaccia neppure all’etica del monumentale di Knappertsbusch, alla forza interiore del lirico Krauss o alla severità intellettuale di un Furtwängler), ma semplicemente un capriccioso tentativo di rendersi interessanti stiracchiando ed enfatizzando la musica. Come tale trova il suo perfetto pendant nella regia frivola e pasticciona di Alfred Kirchner, dove le figlie del Reno praticano l’aerobica e i giganti giocano con gli aquiloni: salvo ritrovarsi poi gambe all’aria già verso la fine della Walkiria. E qui, già delirando dei deliri altrui, siamo svenuti nella fornace del palco, terrorizzati per la povera Brunilde in procinto d’esser condannata all’incantesimo del fuoco. Almeno Wotan le offrirà prima una birra?
Ultimo segnale da Bayreuth anno 1994, deludente non solo per le regie: non si imppazzisce ascoltando il Tristano.
Non almeno se a dirigerlo è Daniel Barenboim, in fase di acuta sindrome da routine, e a metterlo in scena è Heiner Müller: la cui regia, di un gelo smisuratamente intellettualistico, suprema superbia di un miscredente, sembra voler irridere proprio le verità dell’autore, e con esse i nostri sgomenti, all’amore e al sogno inclini.
Dove sarà Wagner, se a Bayreuth continuano a trattarlo così?
da “”La Voce””