La mostra a Zurigo
A Friedrich Dürrenmatt, scomparso il 14 dicembre 1990 all’età di quasi settant’anni, ilKunsthaus di Zurigo dedica una grande retrospettiva che raccoglie, accanto a documenti e testimonianze sull’attività dello scrittore, un assortimento pressoché completo delle opere grafiche e pittoriche. «Friedrich Dürrenmatt scrittore e pittore» è infatti il titolo della mostra; con una specificazione ulteriore: «ritratto di un universo». Questi termini, a chi conosca i lavori letterari di Dürrenmatt, comunicano immediatamente qualcosa di indefinito: universo come caos, come farsa e assurdo paradosso; ritratto di un labirinto dominato da un ordine angoscioso e percorso ora con orrore, ora con humour. Un umorismo per lo più macabro e disperato, ma tutt’altro che rinunciatario a guardare con occhi lucidi e aggressivi la realtà del mondo e della vita.
Tutta l’opera di Dürrenmatt si orienta sul senso della realtà, senza porre distinzioni pregiudiziali tra storia e invenzione; il suo intento non è però rappresentarla, bensì cercare ciò che in essa è all’origine: «cogliere la materia», come egli stesso si espresse in una delle prime riflessioni sulla sua opera. Tale atteggiamento svela l’orrore: il fondamento di queste scoperte è l’abisso di fronte al quale continuamente ci troviamo. E se la realtà nel suo orrore supera sempre le visioni dell’orrore che cercano di descriverla, compito dell’arte è fissare nel profondo l’istante dello smarrimento: con l’immagine, il linguaggio, il pensiero, per afferrare attraverso di essi la materia bollente di cui sono fatte le cose. Solo così la realtà diviene, forse, credibile e comunicabile.
Non si richiedono competenze specifiche per inoltrarsi nella panoramica su Dürrenmatt pittore. Per tutta la sua vita egli si ritenne, magari celiando, un «pittore della domenica»; per quanto in gioventù, in modo anche drammatico, si interrogasse sulla sua vocazione e sentisse la necessità di una scelta. In una lettera del 1941 al padre, pastore protestante, questa questione viene alla luce offrendo insieme interrogativo e risposta: «Dipingere o scrivere? Mi sento spinto a entrambe le cose. Ma per diventare pittore un artista deve prima essere un artigiano, giacché dipingere richiede tecnica, tecnica e ancora tecnica. Per lo scrittore è diverso. Anche qui lo studio deve essere duro, ma di un altro genere. L’uomo che sceglie questa arte deve formare se stesso. Lo stile, il metodo della sua tecnica egli deve raffigurarli a se stesso per essere in grado di elaborarli».
La decisione definitiva venne subito dopo la guerra, con le prime collaborazioni giornalistiche in forma di racconti a puntate, drammi radiofonici e finalmente con l’ingresso vero e proprio nel teatro, luogo del mistero. Il successo dell’autore si accompagna allo scandalo, ma diffonde fuori dalla Svizzera, in Germania prima, nel mondo poi. Il suo primo romanzo poliziesco, Il giudice e il suo boia, diviene presto un classico, entrando perfino nelle antologie scolastiche per quella lingua piana e chiara che lo distingue pur nella fondamentale appartenenza alla tradizione culturale tedesca. La visita della vecchia signora, nel 1956, si afferma come un capolavoro del teatro moderno. I viaggi, la notorietà, l’orgoglio mai rinnegato di aver dato al suo Paese un posto al sole nella letteratura non cambiano lo scetticismo di sempre, la sensazione che per quanto aggirato l’abisso sia sempre lì, come una vertigine che attira; semmai, col tempo, si accentua il tratto dell’umor nero, della riflessione sarcastica, della refrattarietà — che la mostra illustra splendidamente — a sostituire la vita con l’autobiografia. La partita con la Morte richiede mosse sofisticate, ma è anche un invito a separare la sostanza delle cose dalla loro apparenza. Una semplice quartina illumina la verità cruda: «Le ore sprofondano / la notte si spegne / l’ultima cosa tace / il mondo è gioco».
Come liberato dal dubbio della scelta professionale Dürrenmatt riprende a dipingere con una certa frenesia negli anni della maturità. Il suo mezzo di espressione diviene il colore puro: acceso, forte, intenso, a volte quasi ossessivamente «sparato». Quadri quasi sempre di grandi dimensioni, eccessivi e un po’ folli, dove l’urlo espressionista si fa carico della ribellione verso la geometrica, sottile perfidia del labirinto ordinato, chiuso, e l’orrore del mondo, ricomposto il sorriso elegante o il ghigno beffardo, si esplicita in terrore del vuoto, rifiuto della sfumatura e del disegno chiarificatore, esaltazione del delirio e dell’incubo, celebrazione dell’oscurità avvolgente e dell’improvvisa, incomprensibile luce che ne erompe. Sembrano quadri di un’allegra apocalisse: infine l’abisso trionfa e tutto viene fagocitato nella centrifuga del nulla, per esser poi ributtato fuori in schegge impazzite e in forme allucinate dai colori violenti.
Temi e figure riconoscibili come simbolici costellano questa produzione di Dürrenmatt. La catastrofe, del 1966: il Giudizio Universale visto come una sciagura ferroviaria da trenino per bambini, una trappola tesa fuori dal tunnel dell’immaginario. E poi Pilato, Sisifo, Prometeo, Ercole, Atlante. Personaggi di una sfida impossibile col mondo, protagonisti di un’utopia ai confini dell’universo, colti sul ciglio del baratro, a rappresentare un’umanità che si illude sul significato delle cose ultime, e le enfatizza ingenuamente: ciò che come scrittore Dürrenmatt ha sempre evitato di fare. Il visitatore coglie questo dissidio mettendo a confronto le fotografie che ci mostrano il bel faccione placido di Dürrenmatt nei vari stadi della vita e la sua scrittura pedante, minutamente precisa, con questo fragoroso scatenamento di colori e di gesti estremi, inquieti e irrazionali. E ha la sensazione che, se «pittore della domenica» Diirrenmatt fu, lo fosse per un bisogno esasperato, quasi fisico e liberatorio: abbandonato da Dio, negato alla preghiera, neppure quel giorno poteva essere dedicato al riposo, ma doveva comunque essere diverso da tutti gli altri.
da “”La Voce””