Esser cauti con la filologia
L’aspirante fischiatore scaligero del Rigoletto dovrebbe parafrasare il motto di Sir John Falstaff: «L’arte sta in questa massima: fischiar con garbo e a tempo».
E dunque come minimo sfogliare le 416 pagine della partitura, se non le 104 del commento, nell’edizione critica curata da Martin Chusid per la University of Chicago Press e pubblicata da Ricordi nel 1983. Per carità, un’edizione critica non è il Vangelo.
Neanche questa; dove pure non c’è nota che non abbia aggiunto il suo bel segno d’identificazione (legato, staccato, accento, senza accento eccetera): talvolta pleonastico tratteggio alla semplice evidenza della musica. È solo la ricostruzione minuta nella lettera del testo nelle diverse fonti: cui occorre infondere lo spirito di una netta decifrazione. E questo compito spetta in primo luogo agli interpreti sensibili, da sempre.
Rigoletto si fa da 143 anni, dovunque; ma solo alla Scala sembra diventato improvvisamente un problema.
Attenzione a proporlo come l’unico, vero Rigoletto voluto da Verdi: questo Rigoletto non esiste, né esisterà mai. L’opera, come le donne, è per sua natura un genere mutevole: e proprio in questo sta l’attrattiva, di questa e di quelle. È però lecito affermare che alcune varianti e fioriture intervenute nella prassi esecutiva differiscono dalla prima e talvolta anche dalla seconda idea dell’autore, e non sono giustificate dalla loro tradizionale persistenza nell’uso. Ci riferiamo soprattutto agli acuti, a corone e a quant’altro solletica non solo la vanità dei cantanti (da sempre) ma anche (se aboliti) la protesta sibilante del loggione. Su questo punto il testo è chiaro: Verdi non li scrisse. Li previde, li subì? Qui si entra nell’opinabile. La canzone del Duca “”La donna è mobile”” molto naturalmente plana giù al Si naturale, quasi richiudendo il “”pensier”” su se stesso; solo nella ripresa, fuori scena, squilla l’acuto, come una stilettata mortale. Rigoletto, alla fine, cade fulminato senz’urlo, ed è giusto che sia così, musicalmente e drammaturgicamente. Sempre che si intenda l’opera come una follia sì, ma più o meno logica.
Piuttosto va sottolineato che il ripristino delle indicazioni dinamiche e agogiche originali dà alla partitura un tratto di eleganza e di leggerezza andato perduto in una visione del melodramma come arena di cantanti.
Si cominci coll’ascoltare questo colore orchestrale scabro ma non grezzo, denso ma non pesante, compatto ma non privo di finezze: lui refrattario, comunque, all’acuto del fischio.
E poi la tradizione del melodramma è tollerante, nella lunga durata, quanto può sembrare intollerante al momento, nel fuoco della controversia e dell’esecuzione hic et nunc. Può annettersi e digerire molte cose, nel rispetto dell’opera e dell’autore, che cambiano la prospettiva dell’ascolto; o arricchiscono il significato, perciò avanti: ogni Rigoletto , se è buono, ha il suo buono.
da “”La Voce””